mercoledì 28 dicembre 2011

Una vita semplice

Ad un certo punto, del tutto improvviso, dopo una vita fissata a terra col cemento, avverti senza motivi fondati, che si sta abbattendo la fine di un periodo. Dagli e dagli, poi lo capisci, che il gesto si fa meccanico, la battaglia stanca. Gli uomini limitrofi alla tua esistenza, amici e conoscenti, prima erano uomini, ora sono comparse diafane. Li attraversi come se si fendesse l'aria. Sono trasparenti.
Hanno perso, ai tuoi occhi, motivo.
Le esperienze, che un tempo ti portavano una gioia, ora si fanno noia e delusione.
L'esistenza ti sfugge di mano per il semplice motivo che l'hai vissuta già tutta quanta.
Allo stesso tempo, però, ti butti davanti allo specchio e vedi che sei ancora vivo, non hai ancora cent'anni, ma avverti un peso totalitario di come se ne avessi cinquecento di anni. Non sai cosa fare. È una brutta febbre. Ci vorrebbero intelletti lucidi e sorvegliati, allora, per operar decisioni. Ma vi state rivolgendo alla persona sbagliata.
Ci ho il luna park in testa come nella domenica all'ora di punta, miliardi di bambini vivacissimi che mi fanno casino nella testa e residui a quintali di coca assunta senza pause che non sono riuscito a smaltire di nessuna maniera. Neanche col lavaggio del sangue che mi feci a Losanna spendendo una cifra inaudita che se ci penso, anche se è notorio che non sono un tirchio, non posso non rammentare come uno degli episodi più dolorosi della mia vita. Forse mi tradì il gioco delle aspettative. Credevo che dopo il lavaggio del sangue avrei potuto, allegro e spensierato come Heidi, ricominciare come dalla prima volta che mi feci i primi quattro grammi tutti insieme. Avevo venti anni ed ero uno splendore di giovanotto. Invece manco col cazzo che era così.
D'altronde, il medico svizzero me lo aveva detto senza giri di parole e termini scientifici. Con una sincerità elvetica sospetta, mi aveva puntato un indice longilineo assistito dalle seguenti:
"Amico mio, voi vi dovete dare una calmata vera. Voi state messo peggio di tutte le rock band inglesi messe insieme che vengono qui un mese sì e un mese no".
Questo mi disse, dandomi sinistramente del voi. Ma io pensai che si trattasse del consueto allarmismo pessimistico della medicina occidentale. Prevenzione esagerata e terroristica, mi raccontai.
Col cazzo. Aveva ragione lui. Uscii da lì che mi sentivo tale e quale a prima. Forse pure un poco peggio. Cioè una pezza col Vim liquido da sopra. Pesante, duro e spossato come la mozzarella andata a male. Il sangue, anche se fondamentale, ha poco a che fare con il tuo stato d'animo. Lavorano in reparti separati.
Insomma, alla luce del quadro clinico e psicologico del sottoscritto, come pretendere un'organizzazione razionale dei fatti e del pensiero da me. Follia o ambizione smodata. Siamo d'accordo almeno su questo? Eppure lo sento, sta venendo su proprio come uno di quei mal di denti che la prendono alla lontanissima prima di dirti: ti farò lentamente un culo di dolore così, grande come una villa, insomma lo sento che sta venendo su lentamente questa sensazione che qualcosa sta finendo.
Sono al capolinea di qualcosa. Intendiamoci, non sto facendo il tragico, non parlo di morte e malattie. Parlo più terra terra. Ma persiste un'aria di fine. Una linea di malinconia mi sta anche attraversando dopo così tanto tempo che non può passare inosservata. La malinconia mi sta informando di qualcosa, ma non so di che.
Tutto questo lo imbastisco mentre faccio ritorno a piedi da Rituccia a casa. Sono le dieci, non fa freddo. La città esiste per gli altri sicuramente ma non per me. Anche questa è un'avvisaglia. Luoghi che conosco in tutti i loro battiti che, di colpo, mi sono estranei o, peggio, indifferenti. Ma che cazzo sta succedendo, Tony? Ho un po' di paura, adesso, ma una paura leggera, che non mi agita. Una paura decorosa e sopportabile. Che svolazza. Una di quelle paure che, questo lo so, se la prendi per il verso giusto si può tramutare in una riscoperta della vita. Un volano nuovo.
Un parcheggio ricolmo di tassisti. Mi riconoscono tutti. Si sbracciano, mi elargiscono sorrisi e icastiche battute attraverso dentature discutibili, pronti ad offrirmi il passaggio anche gratuitamente. Dico no senza cattiveria, voglio continuare a stare sui miei piedi. Voglio l'appuntamento pacato coi miei pensieri lenti. Come uno qualsiasi. Sì, come uno qualsiasi. Svuotato e trascinato. Quei due tiri sulle scale non mi hanno fatto nulla, mi hanno lasciato anestetizzata la mandibola, ma tutto qua.
Fino a dieci minuti fa non volevo soltanto la mia vita, ma anche quella di tutti gli altri. Un'ingordigia solenne, per immergermi fino in fondo, nel dolore e nel piacere, nell'ordine e nella confusione. Volevo la vita di tutti gli altri, un paguro che deve fare punteggio. Adesso si barcolla in una mediocrità che, però, non riesco più a disprezzare. Ora sono ridotto al lumicino di me stesso. Ma sono ancora vivo. Che non è poco.
Napoli, le urla, i miei simili, odiati e amati fino a pochi istanti fa, tutto mi appare distante. Come un acquario che il proprietario non pulisce da anni. Sto perdendo qualcosa di naturale, qualcosa che non ti insegna nessuno, ma che semplicemente si produce, sto perdendo il senso dell'appartenenza. Ecco cosa cazzo sta succedendo.
Finalmente mi si schiarisce qualcosa sotto gli altipiani di polvere bianca che tengo in testa. Ho individuato il problema e nel preciso momento in cui l'ho messo a fuoco mi attraversa una vertigine sensazionale. Un mondo nuovo. Si dischiudono, di colpo, oceani di prospettive. Non c'è ansia in questa vertigine, non c'è preoccupazione. Le cose si fanno, come poche volte nella stronza mia esistenza, elementari. Una successione logica pullula adesso. Hai perso il senso d'appartenenza con tutto ciò che era decisivo? Benissimo, è ora di trovarne un altro. Un altro luogo, altre facce, un'altra vita. Quattro lire da parte ci sono. Le avevo messe in banca per rifarmi i denti e un lifting. Pazienza, ponti e capsule aspetteranno ancora un poco. Non spaccheremo più le noci coi gusci e guarderemo circospetti tutto il torrone che mi piace tanto. Che cosa sono i denti nuovi e un viso liscio rispetto alla possibilità chiara ed esaltante di puntare un dito sul mappamondo e dire: vaffanculo il prima, ora me ne vado proprio qui. E tutto sarà una cosa nuova. Gesù, mi sta assalendo un'eccitazione infantile, come quando mio zio mi portò a pesca la prima volta sul canale di Procida insieme agli amici suoi che me li ricordo tale e quale che qualunque cosa dicessero era una cosa che aveva il sapore della simpatia e della risata. Un bambino non ha mai chiesto niente di più di una risata insieme agli adulti. Ti senti un altro. Ti senti compiuto.
Questo vuole il bambino. La compiutezza prima del previsto. Vantaggio asciutto sugli altri bambini. Le gare dei bambini disconoscono la tregua. Sono a cicli continui, come i turni in ospedale.
Sì, Tony vostro aveva bisogno di una pausa e non l'aveva capito.
Come nella matematica, perdi il senso d'appartenenza e guadagni il risultato alla fine dell'esercizio. Un risultato chiamato libertà.
Replichi la sceneggiata del vitalismo fino alla nausea e poi la nausea della mediocrità ti aggredisce pori e cosce e te lo ricorda senza misteri: sei come tutti gli altri, né più né meno, hai voglia a sbatterti. Hai voglia ad ostentare i comportamenti atipici. Menala di qua e menala di là, le biografie diverse non ti hanno mai autorizzato ad essere diverso. Questo maledetto comunismo del corpo umano.
Cambiano i numeri di anni che vivi, le modalità e i dialetti, ma c'è quel punto alla fine dell'imbuto nel quale confluiscono tutti. L'imbuto che spernacchiando ti dice: ma chi ti credevi di essere, grandissima faccia di cazzo! Vale per me, per noi, per voi, per loro, per Gesù Cristo e tutti gli apostoli.
Costeggio il rione Sirignano. E mi sfugge un'occhiata languida a quel palazzo monumentale. Da mo' che è morta la baronessa Fonseca. Da mo' che è morta quella Napoli rattoppata degli anni cinquanta. Da mo' che è morto Pagodina, il ragazzetto che ero, tutto proteso, educato e pieno d'intensità. Sì. Sì. Da mo' che ci sarebbero gli estremi per cominciare un grande pianto di rimpianti e nostalgie e poi non finire più.
Mai più. Calmo calmo Tony, non ti scuotere troppo, che pare che c'è ancora il tempo a disposizione.
Stiamo a vedere.
Scavalco piazza Sannazaro, uno slalom di automobili. Le nuvole si abbassano, senza preavviso, all'altezza del secondo piano dei palazzi. Come se stessimo sulla montagna alta. Un vento di mare a folate irregolari innalza carte oleose di arancini pieni d'olio e fa rotolare milioni di lattine di Coca-Cola e Fanta che poi, col tempo, avrà meno successo, ma nel frattempo quello che ha inventato la Fanta se ne sta col culo nella Jacuzzi. Non pensate a un miliardario texano. Quello che ha inventato la Fanta è napoletano. Io l'ho conosciuto una volta, volle che cantassi al battesimo del figlio. A tavola c'erano altre bevande, costose e inarrivabili. Ci ha i miliardi pure sotto ai rubinetti del bidet, l'aveva chiamata Fantasia, la cazzo della bibita, subito dopo la guerra. Poi trasformata in Fanta dagli americani che se la sono comprata. Sai che cazzo gliene fotte che gli hanno cambiato il nome. Lui ha inventato la ricetta e il copyright e intasca nevicate di banconote come un jukebox che non si rompe mai. Ma comunque.
Tutto rotola. Il vento interrompe la pigrizia degli alberi che ora si agitano come una compagnia di balletto, liberando nell'aria odori d'inverno che surclassano i tubi di scappamento. Mi faccio di smog e pollini. Il mondo si avvicina di nuovo a me e non lo conoscevo così. Qualunque cosa mi sta succedendo, comincia a piacermi. Ve lo giuro su Albertino, su mia figlia, ve lo giuro su chiunque, passeggio, sento il vento e gli odori degli alberi, e forse sta cominciando a piovere e io ho la netta, nettissima sensazione che mi sta piovendo addosso un nuovo senso della vita. Una folgorazione.
Una tempesta di semplicità, proprio quello che mi ci voleva. Come mia madre.
Un'altra folgorazione. Ammanettatemi. Quando dico mia madre, io lo so, sono schiavo. Ammanettatemi, se dovessi sfociare nella retorica più prevedibile, nel sentimentalismo più rosa e stucchevole.
Sono al riparo di niente. Io lo so. Perché mia madre. Perché, ancora, e ancora, mia madre. Insomma, l'amore non se lo sono certo inventati i cantautori. Poi lo hanno trasferito con sapienza commerciale sulla coppia moderna perché esso produceva un fatturato molteplice, agguantava il contingente, ma si stava parlando d'altro. Si stava parlando di tutte le nostre madri, in quelle canzonette. L'unico amore riconoscibile, che tocchi con tutto il corpo perché ci stai tutto dentro nella pancia. L'amore contenibile. L'unico amore che non è intercambiabile. Ecco qua. Quest'è.
Ma quando è successo? Quando, precisamente, si è consumata la spaccatura insanabile? Non possiamo continuare a far finta di niente e a non domandarcelo.
Perché è successa una cosa enorme e dolorosa. Perché, quando riguardo quelle sette foto di mia madre, provo una nostalgia così mostruosa che vorrei morire di morte naturale lì lì senza troppi grilli per la testa? Vedo quelle sette foto dove io non ci sono. Non è una nostalgia prevedibile, diciamolo subito. Non è mancanza d'affetto di una madre che non esiste più. Non sono le recriminazioni sentimentali di un figlio a parlare. Non è questo. È altro. È il contenuto di quelle foto che mi sconvolge i sensi.
Che sconvolge anche i sensi vostri perché anche voi ce le avete quelle foto, uguali sebbene diverse. Io, per quanto riguarda me stesso, lo so cos'è. Lo so cosa mi fa piangere sempre, ininterrottamente, anche mentre vado a comprarmi le sigarette o fingo di ridere alle battute di un amico. Lo so. È che in quelle foto alberga una cosa che poi a noi non è più appartenuta. La semplicità. In quelle cazzo di foto c'è, in tutto e per tutto, un concetto di vita semplice che a noi è sfuggito totalmente. Rendendoci l'esistenza un groviglio artificioso così scadente, ma così scadente.
C'è, nelle foto delle nostre madri, il piacere genuino e purificato della vita. Un godimento continuo quando le cose stanno così. Tutta la semplicità che rende la vita accettabile.
Accettabile, un sinonimo di felicità. Perché semplice non vuol dire elementare. Eh no cazzo, non confondiamo i concetti simili ma diversi anni luce tra di loro. È come se tutto ad un tratto, come in un complotto silenzioso ordito da noi stessi, ci fossimo messi a pensare che semplice volesse dire banale. Frantumando, in pochi istanti, uno stile di vita decente e vincente.
Che danni inenarrabili siamo stati in grado di eseguire.
E lì il Quartetto Cetra che ce lo ricordava con ritornelli dementi e noi a mandarli a fare in culo, a non crederci, a sputtanarli come precoci propaggini di senilità. E poi non abbiamo creduto neanche ai Ricchi e Poveri che urlavano mangiare, bere e divertirsi un po' e noi sordi, beffardi, ci prendevamo gioco di loro, ruttavamo sulle loro rime e sulle loro origini, lì a schiaffeggiare bonari i loro culi vispi, riconoscendo poi decenni più tardi che avevano ragione proprio loro, quelli che ci sembravano, semplicemente, scemi.
Non avevano l'autorevolezza per convincerci, solo dentature smaglianti.

Pubblicitarie.
Bisognava credere ai caroselli, invece ci siamo fatti fottere il cervello dalle frustrazioni dei pensatori e noi, testardi e indefessi come api, abbiamo voluto farle a tutti i costi cose nostre, senza neanche capirle poi bene fino in fondo. Creando così un pastrocchio, uno di quei liquidi sughetti arrangiati scopiazzando la ricetta del grande chef. Che deficienti siamo stati. Ad un certo punto ci hanno detto che avevamo gli strumenti per risolvere noi stessi. Una bugia così mostruosa da produrre tossicomani a volontà e centinaia di aspiranti miliardari. Si volevano arricchire per accedere alla contentezza, i cazzoni, e hanno trovato galere ad ogni angolo di strada. Ascessi di solitudini riversate nelle griglie indistruttibili della mente. Ed invece erano proprio coloro senza autorevolezza che conoscevano il segreto. Ma è beffardo l'essere umano, alle volte. Si complica l'esistenza perché non ci crede che le cose possano essere lisce e scorrevoli. Perché, in quale momento preciso, abbiamo commesso questo errore di valutazione così grossolano? Chissà perché, mi domando senza trovare una risposta semplice che è quella che vorrei.
Le speculazioni complesse, in questo caso, mi sono del tutto non esaurienti.
Sarebbe esauriente solo una risposta semplice, che però non arriva mai da nessuna parte. Morti i semplici, ci siamo affacciati noi, torvi, sinistri, finto tenebrosi del segreto della vita. Credevamo di essere diventati complessi, ma eravamo ruzzolati solo nell'essere complicati. Che è tutta un'altra storia, triste assai. Avevamo ancora un piede nelle risate delle corse al sacco delle nostre madri, una volta, ma ce ne siamo liberati per impigliarci altrove. Ci siamo impigliati nei night club e nelle università, sui primi yacht e nelle fabbriche. Questioni d'estrazione sociale, di frequentazioni, di furbizia e fortuna. Senza trovare mai niente, solo un mastodontico, martellante, incomprensibile disagio. Un lungo frastuono. Questo è stato. Ma adesso basta. Ora mollo tutto. Lo giuro sul bambinello nella capanna davanti al bue e all'asinello.
C'è voluta tutta un'intensa guerra della domenica per liberarmi da quel comodino vuoto nella mia testa. Sto pieno di semplicità adesso. È come andare da bambini la domenica lungo via Caracciolo in mezzo a mamma e papà. Io devo solo guardare il mare, sniffarne l'afrore e mangiarmi il tarallo caldo. Al resto pensano loro e comunque hanno poco a cui pensare. Un caffè, una trattoria con due primi piatti e la vita si compie una volta e per tutte. Per il bambino fatemi due maccheroni al sugo. Il vino della casa. Per dolce ci sta la zuppa inglese oppure una cosa esotica, ermetica: il crème caramel.
"Ma che cazzo è?" chiede mio padre quasi incazzato, impaurito dalla vita che verrà.
"Il crème caramel?" dice il cameriere orgoglioso col tovagliolo sul braccio e le scarpe sfondate da duemila chilometri percorsi avanti e indietro dentro la trattoria e, ponendo l'accento sull'ultima "e" di caramel:
"Ma è la rivoluzione" aggiunge.
Perché si credeva che una roba francese fosse sempre una rivoluzione. In effetti, la decadenza del mondo non è forse cominciata a partire da quel cazzo di crème caramel? Poi saremmo precipitati nel risotto allo champagne, inghiottiti dalle pennette alla vodka, addirittura il maltagliato al profumo di rose, consegnandoci al fallimento lucido, lineare. Il mondo cambia a seconda dei menu e noi che non ce ne rendiamo conto. Ma papà mi salva in calcio d'angolo ancora per un poco, non sente ragioni:
"Mio figlio si prende la zuppa inglese" sentenzia con la stessa arroganza di un dittatore sudamericano.
Anche se a me mi faceva cacare la zuppa inglese e ci avrei messo volentieri i denti sopra alla rivoluzione.
Dopo pranzo, andiamo a guardare due barche sul molo traballante di legno. Senza invidia, gli piacerebbe avere un gozzetto a mio padre. Quest'estate ne affitterà uno per un paio di giorni. Perché ci ha il mito della pesca, anche se non sa nemmeno da dove si comincia. Prenderà solo un paio di pinterrè a fine giornata. Un pesce scemo da zuppetta. Ma sarà una delusione sopportabile, da riderci sopra. Questa era la vita, che a noi, in maniera avventata e catastrofica, ad un tratto, ci è parsa una morte. Che facce di cazzo che siamo stati! Che altro aggiungere? Solo grandissime facce di cazzo. Ma io, quanto è vero la madonna, mi riapproprierò di quella roba. Senza sforzo. Mi bastano un aereo, una spiaggia, una baracca e un paese arretrato. Voglio buttare una rete e ne uscirò soddisfatto solo quando da quella rete non uscirà semplicemente niente. Mangiare, bere e divertirsi un po'. Io voglio quello che hanno sempre voluto i Ricchi e Poveri. Voglio vivere come il Quartetto Cetra. Voglio le tendine alle finestre. Voglio placare tutto il casino solo con una camomilla.
Nient'altro. Voglio i baci dietro al collo e una certa discrezione nel fare l'amore. Io rivoglio i pomeriggi infiniti. E piangere al tramonto come Riccardo Cocciante.
Voglio tutta la tenerezza che facevo finta che non servisse perché indice di debolezza.
Liquidare le questioni con una mano quando sono troppo complicate, senza andarci dentro a piedi uniti. Voglio infilare gli occhiali da vista e guardare la vecchiaia.
Guardare la vecchiaia.
Per tutte queste ragioni, quando ho infilato la chiave nella porta di casa mia ero calmo come un budda. E mia moglie Maria se ne è accorta subito che non ero più quello scalmanato di qualche tempo prima. Lei, invece, purtroppo, era sempre la stessa. Immutabile come un cardinale.
Ora alberga lì, immarcescibile, sulla punta del divano e sei bottiglie di lacrime versate vicino al tavolino di cristallo. Vuole ricominciare lì dove avevamo interrotto.
Vuole che la aggredisca come di consuetudine altrimenti non ci crede che sta vivendo veramente. Invece si scontra con un camion di calma e di silenzio. E le manca il terreno sotto i piedi. Non mi riconosce, proprio nel giorno in cui io mi riconosco di più. C'è, nella donna moderna, una perseveranza nel litigio, che scuote anche gli animi più ripiegati. È una cimice, la donna moderna. Sale lentamente lungo tutto il corpo e succhia piccole dosi di sangue. Quando giunge al piede, ricomincia daccapo perché le vecchie bolle si sono ritirate Nel litigio a tempo indeterminato trova un'intima vertigine di soddisfazione che non la fa desistere. Mai. Mai. Un avvoltoio della discussione prolungata. Con una convinzione ottusa che, dentro la schermaglia, si annidi la soluzione del problema. Ma dato che la soluzione è complessa secondo loro, allora, per definizione, il litigio deve possedere una sua lunghezza incredibile, estenuante. Se desiste dal conflitto, statene certi, è solo un'interruzione pubblicitaria.
Una strategia di vendita del litigio. Una presa d'aria per ricominciare daccapo. Con nuovo vigore. Io, invece, di indole, pur di scongiurare un litigio, sarei pronto a vendere le enciclopedie porta a porta. Poi mi lascio fottere dal sangue al cervello che in me lavora alacre e allora deflagro nelle urla e nella cattiveria. Ma non adesso. Ora che ho altro a cui pensare. Ora che mi sono sintonizzato dopo venticinque anni di nuovo con la vita semplice.
Sbaglia l'attacco, Maria la monocorde. Sibila dall'oltretomba:
"Voglio il divorzio".
Ricomincia da dove aveva finito.
E crede di avere fornito l'incipit per quattro ore di guerra sotto il soffitto. Invece, ma lei non lo sa, è andata dritta dritta alla conclusione del problema perché io dico senza enfasi e con un tono sincero che lei non riconosce in me da quando ci siamo fidanzati:
"Accordato".
La vedo. È ferma, di pietra. Ma sta esattamente dentro a quelle brutte cadute sul fango quando vai per aria, perdi il senso dell'orientamento e non sai, per un frammento di secondo, come e dove cadrai. Ed è il panico.
Ma deve essere caduta e non si è fatta niente, perché ritrova il bandolo e fa marcia indietro con una frase significativa:
"E a tua figlia non ci pensi?".
"Sì, ci penso, ma ormai è grande, capirà, deve cominciare la sua vita finalmente. E le vite vere, spesse volte, cominciano con un grande dolore."
Mi è uscita dalla bocca una tale tempesta di buon senso che lei, incredula come il calamaro, inclina la testa di lato di quindici gradi. Con un'incredulità così ingorda, ma così ingorda che gli occhi le si spalancano come se avesse visto la Cappella Sistina.
Le palpebre le sbattono producendo un suono atonale.
Dischiude la bocca e solo adesso, per quei miracoli della volubilità del corpo umano, sono pronto a riconoscere che ha una bellissima bocca. Un pensiero che si era perso nella lontananza.
Distrutta dall'impotenza, si alza dal divano. Io mi avvicino a lei e l'abbraccio con una delicatezza, una premura che da me non ha mai conosciuto. Poi dico:
"Adesso mi faccio la valigia e me ne vado".
Nel momento preciso in cui la sto lasciando, ha trovato inaspettatamente l'uomo che ha sempre desiderato. Un uomo tenero. Un uomo comprensivo. Un uomo calmo.
Infine, un uomo affidabile.
Le sta crollando il mondo addosso. E lo sa. Mi seguirebbe in capo al mondo.
Esattamente dove sto per andare. Ma senza di lei. Troppo spesso le vite non s'incontrano, per questo soffriamo tale e quale come i bambini del Centro Africa senza cibo né acqua. Ecco tutto. Ma mentre il problema dell'Africa, con un po' di buona volontà, si potrebbe pure risolvere, qua invece non c'è un cazzo da fare. È così.
Sono, le nostre, sofferenze insensibili alle cordate umanitarie.
Le tremano le ginocchia, le labbra le si fanno esili fili bianchi di fiordilatte, le pupille la abbandonano e sviene sul tappeto. Aveva bisogno della pausa pubblicitaria.
L'ha trovata involontariamente. Il corpo le ha sconfitto il pensiero. È scivolata scomposta senza battere la testa. Questo è importante, perché ora posso andare a fare la valigia senza pronto soccorso e sensi di colpa. Ma non sono contento. Solo freddo.

Cattivo senza volontà di esserlo. Sono, molto semplicemente, un uomo. Come gli altri.
In camera da letto, mi arrampico come un Tarzan in pensione agli scaffali alti. Ho delle idee così chiare e semplici che il mondo mi sembra inventato da me. Un vestito su misura. Per cui, scaravento giù solo camiciole estive e morbidi pantaloni di lino.
Compongo una valigia piccola, mentre sento dalla cucina dei gemiti di dolore lancinante. Si è ripresa, Maria, e ha eletto la cucina a bara.
Afferro una foto di mia figlia di quando aveva due anni e poi chiudo il borsone.
Attraverso il corridoio, come dentro l'ovatta calda. Sono pronto per un addio semplice e concreto. Sono un altro.
"Mi comporterò come un gentiluomo. Ti lascio tutto, casa, macchina, tutto, prendo solo qualche milione per affrontare gli inizi della nuova vita. Non avrete mai più notizie di me, ma state tranquilli, immaginatemi vivo e sereno. Mi farò vivo solo un'altra volta, da morto. Ma avrò provveduto io alle spese del mio funerale. E ora non piangere più, Maria. Tu piangi perché credi, sbagliando, che c'è una sola vita su questa terra. Invece ce ne sono almeno tre, forse quattro. Tieni a mente quello che ti sto dicendo. Perché da qui in poi, questo è l'unico concetto buono a tenere in vita sia te che me."
Per adesso, non mi ascolta. Vuole piangere a tutti i costi. Ma poi le torneranno in mente queste parole, perché sono autentiche.
E saranno parole di sollievo.
Mi giro e me ne vado senza dire altro, senza guardare la casa, senza guardare la città, senza salutare Samanta, il maestro Mimmo Repetto, nessuno. Non bisogna annusare niente, perché potrei sentire la puzza di nostalgia che inchioda. Un piccolo sforzo ancora, per essere fuori dal mondo fatiscente. E da quello che ero fino a una mezz'oretta prima.
Dentro al tassì che mi portava all'aeroporto, quello, tanto per cambiare, ci ha provato. Lo percepisco per la milionesima volta che mi scruta attraverso lo specchietto retrovisore e si sta spappolando dalla curiosità. Poi prende il coraggio, abbatte l'imbarazzo perché non è più un ragazzino e me lo chiede:
"Ma voi siete il cantante?".
Mi sta scorrendo nel finestrino, dalla tangenziale, una città sconosciuta che conosco da quando sono nato. Non mi volto verso di lui. Non smuovo me stesso, mentre gli occhi mi cascano sulle troppe antenne che massacrano dei tetti indimenticabili e dico con una voce roca e stanca:
"No, non sono io".
Non ci ha creduto. Però sa stare al mondo e ha capito che non volevo rotture di cazzo. Ha ripreso a guardare avanti e ha pagato il pedaggio.
Poi, ho elaborato un pensiero semplice: lui resta qua per sempre, io me ne vado per sempre. E già la vita nuova non mi sembrava più tanto nuova. Ma era uno scoramento momentaneo. Il classico avvilimento che ti prende prima di qualsiasi viaggio.
Figuriamoci prima del viaggio che non prevede il biglietto di ritorno.
Quando mi sono voltato a vedere di nuovo la città questa non c'era più. Se ne era andata. C'era solo un muro sulla carreggiata e delle piante selvatiche. Roba da geometri frettolosi e approssimativi. Se ne era andata la città e se ne era andata pure quella folata di malinconia che mi aveva accompagnato la sera. Solo allora ho realizzato che ero solo. Come lo sono sempre stato.
Ma un po' più solo, adesso.

Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione


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