domenica 30 ottobre 2011

"Amore psicotropo"


«I dibattiti veri e propri erano stati fissati per le cinque: avevo perciò un po’ di tempo per riprendere fiato, e risalii così al centesimo piano. Dopo aver mangiato delle insalate troppo salate mi era venuta una gran sete, ma il bar del mio piano era inesorabilmente occupato da contestatori e dinamitardi con le loro ragazze; io ne avevo avuto abbastanza della conversazione con il barbuto papista (o antipapista), per cui mi accontentai di un bicchiere d’acqua del rubinetto.
Non appena l’ebbi trangugiata, si spense la luce in bagno e in tutte e due le camere; il telefono, indipendentemente dal numero che formavo, mi metteva in comunicazione con una segreteria automatica che raccontava la favola di Cenerentola. Avrei voluto scendere nella hall ma l’ascensore non funzionava. Sentii un canto corale di contestatori che sparavano a tempo; lontano da me, mi auguravo. Cose di questo genere accadono anche negli alberghi di prima categoria, ma non per questo sono meno irritanti. In mezzo a tutto ciò, quello che più mi sorprese fu la mia reazione. Il mio umore, diventato piuttosto nero dopo la conversazione con il papaltiratore, migliorava di secondo in secondo. Procedendo a tastoni per la camera, rovesciai alcuni oggetti, ma sorrisi con indulgenza nell’oscurità, e perfino l’aver violentemente sbattuto il ginocchio contro una valigia non diminuì la mia benevolenza verso il mondo intero. Brancolando nel buio, riuscii a trovare sul comodino i resti del cibo che avevo consumato in camera, fra la colazione e il pranzo, e infilai nel burro avanzato un pezzo di carta strappato da una cartella congressuale; quando lo accesi con un fiammifero ottenni, in verità, una gran folata di fumo, ma anche una debole fiammella, al cui chiarore mi adagiai in poltrona; avevo ancora davanti a me più di due ore di tempo libero, anche se una avrei dovuto impiegarla per scendere le scale (l’ascensore non funzionava). La mia serenità spirituale attraversò ulteriori fluttuazioni e cambiamenti che osservai con vivo interesse. Tutto mi appariva allegro, addirittura eccezionale. Potevo enumerare al volo una serie di motivi per spiegare lo stato d’animo in cui mi trovavo; fra tutte, la cosa più sublime mi sembrava l’appartamento dell’Hilton: immerso in un’impenetrabile oscurità, pieno di odore di bruciato e di fuliggine del pezzo di burro, tagliato fuori dal mondo, con il telefono che raccontava favole, mi appariva come uno dei posti più incantevole della terra. Avvertivo un prepotente desiderio di accarezzare qualcuno, non aveva importanza chi, o perlomeno stringere calorosamente la mano del prossimo, con uno sguardo profondo e pieno d’affetto.
Avrei baciato il mio più accanito nemico armato di doppietta. Il burro, struggendosi, sfrigolando e fumando si spegneva a poco a poco: il fatto che “sfrigolando” faccia rima con “fumando” mi fece ridere di gusto, sebbene, nel tentativo di riaccendere lo stoppino di carta, mi fossi ustionato tre dita. La fiammella del burro bruciava appena e io canterellavo a mezza voce arie di vecchie operette, senza nemmeno accorgermi che l’odore acre del fumo mi stava soffocando e le lacrime mi scendevano, dagli occhi arrossati, giù per le gote. Alzandomi, caddi lungo disteso, inciampando sulla valigia che si trovava sul pavimento, ma il bernoccolo, grosso come un uovo, che mi spuntò sulla fronte, non fece che migliorare il mio umore (per quanto fosse ancora possibile migliorarlo). Continuavo a ridere, nonostante quel fumo scuro e puzzolente mi facesse soffocare; nulla poteva intaccare il mio gioioso entusiasmo. Mi misi a letto, ancora disfatto dal mattino, sebbene già fosse pomeriggio inoltrato; alla servitù, che dava prova di tali sbadataggini, pensai come ai miei figli: non mi venivano in mente nient’altro che teneri vezzeggiativi e soavi paroline. Mi venne in mente che, se fossi morto soffocato, sarebbe stato il più divertente, il più simpatico genere di morte che ci si possa augurare. Questa constatazione era a tal punto incompatibile con tutta quanta la mia indole che ebbe su di me l’effetto di una sveglia. Nel mio animo avvenne una sorprendente scissione. Ero ancora colmo di una pacata comprensione, una sorta di universale benevolenza verso tutto ciò che esiste; avevo le mani così avide di accarezzare qualcuno che, in mancanza di altre persone, presi a lisciarmi delicatamente le guance e a tirarmi per gioco le orecchie; posi anche ripetutamente la mano destra alla sinistra per scambiare una vigorosa stretta. Persino le mie gambe fremevano dal desiderio di carezze. Con tutto ciò nel profondo del mio essere si accesero dei segnali di allarme: “Qualcosa non va!” gridava in me una voce lontana, debole. “Fa’ attenzione, Ijon, sii vigile, in guardia! Questa serenità non è degna di fede! Agisci, presto! Via! Avanti! Non stare in panciolle come Onassis, inondato di lacrime per il fumo e la fuliggine, con la fronte bernoccoluta, sprofondato in una benevolenza universale! È il sintomo di un nero tradimento!”. Nonostante queste voci, non mossi neppure un dito. Avevo la gola arida. Il cuore mi batteva forte da tempo, ma me lo spiegavo con l’amore universale destatosi all’improvviso. Andai in bagno, tanto tremenda era la mia sete; pensai all’insalata troppo salata del banchetto, o meglio del cocktail in piedi, poi, per prova, mi immaginai i signori J.W., H.C.M, M.W. e altri dei miei peggiori nemici; constati che, oltre al desiderio di una cordiale stretta di mano, di un caloroso bacio e dello scambio di parole e pensieri gentili, non provavo altri impulsi nei loro confronti. Questo era davvero allarmante. Con una mano sul pomello di nichel del rubinetto, tenendo nell’altra il bicchiere vuoto, raggelai. Lentamente lo riempii d’acqua e, contorcendo la bocca in una strana smorfia – vidi nello specchio le contrazioni dei lineamenti del viso – vuotai l’acqua nel lavandino.
L’acqua del rubinetto. Ma certo! Appena finito di berla erano avvenuti in me dei cambiamenti. Cosa mai poteva esserci dentro? Un veleno? Non avevo ancora sentito parlare di un’acqua che... Eppure, un momento! Sono un abbonato permanete della stampa scientifica. Ultimamente su Science News erano apparsi articoli su nuove sostanze psicotrope del gruppo dei cosiddetti benignatori, che inducono gioia e serenità artificiali. Ma sì! Avevo quell’articolo davanti agli occhi. Edonidol, benefattorina, enfasin, euforiasol, felicitol, altruisan, buonacarezzina e tutta la gamma dei derivati! Attraverso la reazione degli idruforzuri con le ammide, sintetizzate dallo stesso gruppo biochimico, il furiasol, pazzina, la sadistizzina, la flagellino, l’aggressium, il frustrandol, il colleran e molti altri preparati che provocano la collera (indicono cioè a picchiare e malmenare, nell’ambiente circostante, sia le cose inanimate che le cose viventi; l’effetto più decisivo dovevano averlo il calcinol e l’azzuffina).
Lo squillo del telefono interruppe questi pensieri; contemporaneamente tornò la luce. Era il portiere dell’albergo che, con voce umile e in tono solenne, si scusò per il guasto che era già stato riparato. Aprii la porta sul corridoio per dare aria alla stanza; nell’albergo, per quel che potevo vedere, regnava la calma. Intossicato, ancora pieno del desiderio di impartire benedizioni ed elargire carezze, chiusi la porta di scatto, mi sedetti in mezzo alla stanza e cominciai a lottare con me stesso. È incredibilmente difficile descrivere il mio stato d’animo in quel momento. Non si deve, comunque, credere che fossi lucido e razionale come può sembrare. Ogni riflessione critica era immersa nel miele e sguazzava fino alla paralisi in una specie di massa cremosa di ebete autoappagamento; il pensiero fluiva come uno sciroppo di sentimenti positivi e il mio animo pareva sprofondare nella più dolce delle paludi possibili, annegando in oli di rose e in glasse. Con forza mi costrinsi a pensare a quello che più mi disgustava: alla canaglia barbuta con la doppietta antipapista, alle dissolutezze degli editori della Letteratura Liberata e alloro banchetto babilonico-sodomita, ai signori W.C., J.C.M., A.K. e a tante altre canaglie e furfanti. Dovetti constatare ancora una volta, con sgomento, che amavo tutti, che perdonavo tutto a tutti, anzi, di più: immediatamente, proliferando come funghi, scaturirono dai miei pensieri argomenti in difesa di ogni male e di ogni bruttura. Un tempestoso uragano di amore fraterno mi dilaniava la testa; soprattutto mi faceva star male ciò che meglio si può esprimere con le parole “spinta a fare del bene”. Invece che ai veleni e agli psicotropi, pensavo avidamente alle vedove e alle orfanelle, alle quali avrei dato protezione con piacere; provavo crescente stupore per il fatto che, fino ad ora, avessi dedicato loro così poca attenzione. E che dire dei poveri, affamati, miserabili, gran Dio! Mi sorpresi in ginocchio sulla valigia, a gettare sul pavimento il suo contenuto, alla ricerca delle cose migliori da offrire ai bisognosi. E di nuovo deboli voci d’allarme risuonarono nel mio subconscio: “Attenzione! Non intontirti! Lotta! Falcia! Calcia! Salvati!” gridava qualcosa dentro di me stancamente, ma con disperazione. Era atrocemente lacerato. Percepivo la potente carica di un imperativo categorico, che mi impediva di far del male perfino a una mosca. Che peccato, pensai, che all’Hilton non ci siano topi e nemmeno ragni: come li avrei accarezzati, amati! Mosche, cimici, topi, zanzare, pidocchi, care creature del buon Dio! Benedissi di sfuggita il tavolo, la lampada e le mie gambe. Ma i residui di lucidità non mi avevano ancora abbandonato, per cui, improvvisamente, colpii la sinistra con la mano destra, che stava impartendo la benedizione, fino a contorcermi dal dolore. Non era male! Chi lo sa, poteva anche essere salvifico! Per fortuna la spinta a fare del bene aveva un carattere centrifugo: era agli altri, più che a me, che auguravo del bene. Riuscii ad assestarmi un paio di schiaffi, fino a torcermi la spina dorsale e a vedere le stelle. Bene, avanti così! Quando il viso mi si irrigidì, mi misi a tirar calci alle caviglie. Per fortuna avevo le scarpe pesanti, con la suola tremendamente dura. Dopo il trattamento a base di calci furiosi per un attimo mi sentii meglio, cioè peggio. Cautamente provai a pensare che cosa sarebbe successo se avessi dato un calcio al signor J.C.A. Non era più del tutto impossibile. Entrambe le caviglie i facevano un male del diavolo e, probabilmente grazie all’automaltrattamento, ero in grado di immaginarmi persino un pugno assestato al signor M.W. Senza badare al tremendo dolore, scalciai ancora. Tutto ciò che era a punta andava bene; usai una forchetta e poi degli spilli, tolti da una camicia non ancora usata. Non andò tutto liscio, anzi, esitai; dopo un paio di minuti ero ancora pronto a infiammarmi per una buona causa: di nuovo si sprigionò in me un geyser della più alta generosità e della più virtuosa passione. Ormai non avevo più dubbi: c’era qualcosa nell’acqua del rubinetto. Ma che sciocco! Da molto tempo avevo in valigia un sonnifero, mai usato: mi metteva di umore cupo e aggressivo, e proprio per questo non lo avevo mai preso: fortuna che non me ne ero sbarazzato! Inghiottii la compressa, masticandola con il burro che sapeva di fumo (evitavo l’acqua come la peste), poi trangugiai con sforzo due compresse di caffeina al fine di controbilanciare gli effetti del sonnifero; sedetti sul divano e attesi con paura, ma anche con impeti di amore fraterno, il risultato della lotta chimica nel mio organismo. L’amore continuava a farmi violenza, ero rabbonito come mai lo ero stato in vita mia. Pareva però che i preparati chimici cattivi avessero cominciato a prendere il sopravvento su quelli buoni. Ero pronto a continuare le buone azioni, ma con maggiore discernimento. A dire il vero avrei preferito essere l’ultimo dei furfanti, almeno per un po’ di tempo. Un quarto d’ora dopo ero tornato in me.»


Stanislaw Lem, Il congresso di futurologia


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