lunedì 31 ottobre 2011

Camilla Lopez

«Scesi in camera mia, sbadigliai e mi gettai sul letto. In quel momento mi ricordai dell’armadio. Mi alzai e andai ad aprirlo. Tutto era a posto, gli abiti appesi agli ometti, le valigie sul ripiano. Non c’era la luce dentro, così acesi un fiammifero e guardai per terra. In un angolo vidi alcuni granelli scuri, simili a del caffè macinato grosso. Vi premetti sopra un dito e li assaggiai con la punta della lingua. Nessun dubbio, era marijuana. Una volta Benny Cohen me l’aveva fatta vedere, mettendomi in guardia dal prenderla. Adesso sapevo perché era stata qui. Bisogna chiudersi in un locale a prova d’aria per fumarla. Ecco perché gli scendiletto erano stati spostati; se n’era servita per tappare la fessura sotto la porta.
Camilla si drogava. Annusai l’aria all’interno dell’armadio e i vestiti appesi. Si sentiva ancora un lieve odore di granturco bruciato. Camilla, la drogata.
Non erano affari miei, ma lei era Camilla. Si era presa gioco di me, mi aveva imbrogliato e per giunta era innamorata di un altro, ma era bella, molto bella, e io avevo bisogno di lei. Decisi quindi di farli diventare affari miei e quella sera mi infilai nella sua auto ad aspettarla.
− E così ti droghi, − le dissi.
− Solo ogni tanto, − obiettò − Quando sono stanca.
− Devi smetterla.
− Non ne sono dipendente.
− Comunque la devi piantare.
Si strinse nelle spalle. − A me va bene così.
− Promettimi che la farai finita.
Si fece una croce in corrispondenza del cuore.
− Che io possa morire all’istante −. Ma stava parlando ad Arturo, non a Sammy, e io sapevo che non avrebbe mantenuto la promessa. Mise in moto, poi si avviò lungo Broadway fino all’Ottava, dove svoltò, diretta alla Central Avenue. − Dove andiamo? − le dissi.
− Adesso vedrai.
[…]
Ci fermammo davanti a casa sua, in Temple Street. Era un edificio cadente, una casa di legno riarsa dal sole e agonizzante. Lei viveva lì, in un appartamento. Dentro c’era un letto pieghevole, una radio e un divano azzurro, sporco e troppo imbottito. La moquette era impolverata e cosparsa di briciole e in un angolo buio era stato gettato un rotocalco. I piani dei mobili erano ingombri di bambole di pezza, ricordi di notti di festa passate in qualche località marina. Appoggiata a una parete c’era una bicicletta, le cui gomme sgonfie indicavano che non veniva usata da tempo. Agli altri angoli c’erano una canna da pesca con la lenza tutta aggrovigliata e un fucile polveroso. Sotto il divano una mazza da baseball e tra i cuscini della poltrona era stata abbandonata una Bibbia. Il letto era disfatto e le lenzuola sporche. Alle pareti qualche riproduzione, fra cui quella di un capo indiano che salutava il cielo.
Andai in cucina. Dal lavandino saliva un odore di immondizia e sui fornelli c’era una padella piena di grasso rappreso. Aprii il frigo: non conteneva altro che una scatola di latte condensato e un panetto di burro. Lo sportello del ghiaccio non si chiudeva, ma non c’era da stupirsi. Guardai nell’armadio dietro il letto e vidi un mucchio di abiti accatastati sul fondo. Le grucce erano tutte vuote, tranne una, da cui pendeva un cappello di paglia, ridicolmente solo.
Era qui che viveva! E c’ero anch’io ora, e camminavo dove aveva camminato lei, toccavo le cose che aveva toccato lei e respiravo la stessa aria. Me l’ero immaginata così la sua casa. Avrei potuto riconoscerla anche a occhi chiusi, perché era impregnata del suo odore e recava i segni della sua esistenza febbrile, che la rendevano parte di un progetto senza speranza. Un appartamento a Temple Street, una casa a Los Angeles. Lei apparteneva alle terre ondulate, ai deserti sconfinati, agli alti picchi, avrebbe devastato qualsiasi abitazione, fatto scempio di una minuscola prigione come quella. E io l’avevo sempre saputo. Questa era la sua casa, la sua rovina, il suo sogno infranto.
Si tolse il soprabito e si buttò sul divano, dove rimase a fissare con aria cupa la moquette da quattro soldi. Mi sedetti in poltrona, accesi una sigaretta e lasciai vagare lo sguardo sull’incavo della sua schiena e dei suoi fianchi. Il corridoio buio di quell’albergo, il negro sinistro, la stanza nera e i drogati, e ora questa ragazza che amava un uomo che la odiava. Faceva tutto parte dello stesso quadro perverso, tinto di affascinante sudiciume. Mezzanotte a Temple Street e, tra noi, una scatola di marijuana. Lei se ne stava sdraiata, con le lunghe dita che sfioravano la moquette, indifferente e stanca, come in attesa.
− Hai mai provato?
− No.
− Non ti farà male, per una volta.
− Ho detto di no.
Si rizzò a sedere e si mise a frugare nella borsa in cerca della marijuana. Estrasse anche un pacchetto di cartine. Ne prese una, la riempì, l’arrotolò, la leccò, poi la strinse alle estremità e me la porse. Ripetei che non la volevo, ma la presi.
Se ne preparò una per sé. Poi si alzò e chiuse la finestra, assicurandosi che la maniglia tenesse. Si diresse quindi verso il letto, tirò via la coperta e l’appoggiò contro il fondo della porta. A questo punto lanciò un’occhiata attenta tutt’attorno e mi guardò, sorridendo. − Ognuno reagisce a modo suo, − commentò. − Forse ti renderà triste e ti farà venire voglia di piangere.
− Figurati.
Si accese la sigaretta, avvicinandomi il fiammifero perché potessi accendere anch’io.
− Non dovrei farlo, − dissi.
− Aspira, − continuò lei. − Poi trattieni il fumo a lungo, finché sentirai male. Allora lascialo andare.
è roba pericolosa, − osservai.
Aspirai e trattenni il fumo a lungo, come mi aveva detto. Poi lo lasciai uscire. Lei si appoggiò allo schienale del divano e fece lo stesso. − A volte ce ne vogliono due.
− Sono sicuro che non mi farà nessun effetto.
Fumammo fino a bruciarci le dita. Poi fui io ad arrotolarne altre due. A metà della seconda la sentii arrivare. Era una sensazione di leggerezza, di distacco dalla terra, accompagnata dalla gioia di chi ha vinto lo spazio e da uno straordinario senso di potere. Scoppiai a ridere e aspirai di nuovo. Lei aveva sul viso il freddo languore della notte precedente, una specie di remota passionalità. Io ormai mi ero spinto oltre i limiti della stanza, oltre la mia stessa carne, e fluttuavo in un mondo di lune splendenti e stelle luminose. Ero invincibile. Dov’era finito quel tipo dalle cupe felicità, dallo strano coraggio? Io ero un altro. Presi la lampada che stava sul tavolo accanto a me, la fissai e la gettai per terra.
Andò in mille pezzi. Scoppiai a ridere. Lei udì lo schianto, si voltò a guardare e si unì alla mia risata. − Non c’è niente da ridere, − le dissi.
Scoppiò a ridere di nuovo. Mi alzai, attraversai la stanza e la presi tra le braccia. Non ero mai stato così forte, e lei ansimò, compressa dalla mia stretta e dal mio desiderio.
La guardai mentre si spogliava e, da qualche piega della mia memoria terrena, affiorò il ricordo di aver già visto quella espressione, oscillante tra obbedienza e paura. La associai alla baracca nel deserto e a Sammy, che le ordinava di andare a prendere la legna. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Lei mi scivolò tra le braccia e io risi delle sue lacrime.
Quando il sogno finì e con esso la sensazione di fluttuare verso astri che esplodevano, quando il mio sangue riprese a scorrere nei suoi canali consueti e la stanza ritrovò i suoi contorni sordidi, quando il mondo tornò a essere una landa desolata, non provai altro che il mio vecchio senso di colpa e la consapevolezza di avere compiuto una trasgressione. Avevo commesso un crimine, un peccato contro la vita. Mi sedetti accanto a lei, che era ancora sdraiata sul divano, e fissai la moquette. Fu allora che vidi i frammenti di vetro provenienti dalla lampada rotta. Quando mi alzai sentii il dolore, la pena acuta della carne dei miei piedi, oppressi dal mio stesso peso. Mi meritavo di soffrire. Mi infilai le scarpe e mi accorsi di avere i piedi tagliati. Poi uscii nel luminoso stupore della notte. Zoppicando, percorsi tutta la strada fino a casa. Mi dissi che non avrei mai più rivisto Camilla Lopez.»

John Fante, Chiedi alla polvere

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