sabato 3 giugno 2017

Il negozio di liquori

«Facciamo un salto al negozio di liquori?» propose Rahul alla sorella, sedendosi sul letto e spiegazzando alcuni fogli. Frugò tra nastri e bigliettini prendendo in mano ogni cosa e poi lasciandola ricadere.
«Adesso?»
«Hai altri programmi per la serata?»
«Be', no. Però a Ma e Bapa sembrerà strano se usciamo così, all'improvviso.»
Rahul alzò gli occhi al cielo. «Gesù, Didi. Hai quasi ventiquattro anni. Davvero ti importa ancora qualcosa di quello che pensano loro?»
«Stavo per mettermi in pigiama.»
Lui prese le forbici, lo sguardo concentrato sul lento aprirsi e chiudersi delle lame, come se ne scoprisse la funzione per la prima volta. «Da quando sei diventata così noiosa?»
Era una battuta, e lei lo sapeva, eppure il commento la ferì lo stesso. «Ci andremo domani, promesso.»
Rahul si alzò, con la stessa aria distaccata e distante che aveva ostentato a cena, e Sudha esitò. «I negozi saranno ancora aperti, immagino» disse, controllando l'orologio. E così assecondò il fratello: mentì ai genitori, dicendo che doveva fare un acquisto dell'ultimo minuto al centro commerciale, e Rahul si offrì di accompagnarla in macchina.
«Sei fantastica» le disse lui mentre si dirigevano verso la città. Abbassò il finestrino, riempiendo l'automobile d'aria gelida, e pescò dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ne offrì una alla sorella dopo aver premuto l'accendino del cruscotto, ma lei scosse la testa e alzò il riscaldamento.

Jhumpa Lahiri, Solo Bontà 

mercoledì 19 aprile 2017

Un mondo reale


Alexandra aveva una piastra di registrazione in uno dei fienili che stava crollando. Lui l'aveva vista danzare sulle punte, con la gonna che svolazzava, mentre cantava fra sé. Gli erano venuti in mente i versi di una canzone: "Vi ho visti danzare in palestra, vi siete tolti le scarpe scalciandole..."
Su un vecchio tavolo teneva pagine dei suoi scritti; sparse tra i fogli c'erano fotografie che lei aveva scattato per illustrare le storie.
Aveva detto: "Se c'è un telefono nella storia, scatterò la foto di un telefono e la metterò accanto al paragrafo."
Nel fienile in rovina, lui aveva messo su un nastro e aveva ballato, se ballare era il verbo giusto per le sue sconnesse mosse artistiche, eseguite in pigiama e stivaloni.
Per questo quella mattina si sentiva acciaccato.

"Cè un mondo reale," aveva detto lo scienziato Richard Dawkings.
Harry si era ripetuto questa osservazione più volte, poi l'aveva trasmessa ad Alexandra come antidoto ai suoi sogni fantastici.
Lei aveva riso e aveva detto: "Forse c'è un mondo reale. Ma non ci vive nessuno."

Hanif Kureishi, Goodbye Mother

sabato 15 aprile 2017

Il soldato negro

Le braccia strette intorno alle ginocchia e il mento appoggiato sulle lunghe gambe, la "preda" alzò verso di me gli occhi arrossati in uno sguardo avvolgente e appiccicoso. Il sangue di tutto il corpo mi si riversò nelle orecchie e mi imporporai in viso. Distolsi lo sguardo e lo alzai su mio padre che, con le spalle al muro, puntava il fucile contro il soldato negro. A un suo cenno col mento, avanzai quasi a occhi chiusi e posai la cesta del cibo davanti al soldato negro.  Quando arretrai, gli organi interni mi si torsero per l'improvvisa paura, e dovetti controllare un moto di nausea. Il soldato negro fissò la cesta del cibo, mio padre la fissò, io la fissai. Un cane abbaiò in lontananza. Al di là del lucernaio la piazza era buia e silenziosa.
All'improvviso la cesta del cibo che si trovava sotto gli occhi del soldato negro cominciò a interessarmi. La guardavo attraverso gli occhi affamati del soldato negro: polpette di riso in quantità, pesce secco arrostito senza grassi, verdure bollite e latte di capra che riempiva una bottiglia sfaccettata dalla grossa imboccatura. Il soldato negro fissò a lungo il cestino, rimanendo nella stessa posizione nella quale si trovava quando ero entrato, finché io cominciai quasi a sentire i crampi della fame. E pensai che il soldato negro avrebbe disprezzato noi e la nostra povera cena che gli offrivamo e non avrebbe mai toccato quel cibo. Fui assalito da un senso di vergogna. Che sciagurata idea era stata quella di dare da mangiare a quel negro!
Ma, in modo del tutto inaspettato, il soldato negro stese il braccio incredibilmente lungo, afferrò con le grosse dita pelose la bottiglia, la avvicinò a sé e la odorò. Quindi la bottiglia dalla larga imboccatura si inclinò, le grosse labbra gommose del soldato negro si aprirono, una fila di denti grandi, bianchi, ben allineati come il congegno interno di una macchina si scoprì e il latte si riversò in quella bocca grande, rosata, scintillante. La gola del soldato negro emise un rumore simile a quando l'acqua mescolata a bolle entra in uno scarico; poi, dall'estremità delle labbra, gonfie come la polpa di un frutto toppo maturo stretta da un filo, il latte denso traboccò, scivolò lungo la gola scoperta, bagnò la camicia aperta e il petto e si condensò come grasso tremolante sulla pelle dura, bruna, rilucente. Con le labbra secche per l'emozione, scoprii che il latte di capra era un liquido meraviglioso.
Il soldato negro rimise rumorosamente la bottiglia nel cestino. Ormai dai suoi movimenti era scomparsa la primitiva esitazione. Le polpette di riso sembravano piccoli dolci nelle sue mani enormi; il pesce secco fu polverizzato, con tutta la testa e le lische, tra i suoi denti brillanti. In piedi accanto a mio padre, le spalle appoggiate alla parete, osservai ammirato quella potente masticazione. Il soldato negro era intento al suo pasto e non ci prestava attenzione, per cui io, soffocando i morsi della fame, ebbi l'opportunità di osservare la splendida "preda" di mio padre e degli adulti. E che splendida "preda" era davvero!

Kenzaburō Ōe, L'animale d'allevamento

mercoledì 8 gennaio 2014

Il libro delle ultime vite



Era la prima volta che entravo nella biblioteca Nazionale. Era un edificio splendido, con ritratti di governanti e generali appesi ai muri, colonnati all'italiana e un bellissimo marmo ad intarsio – una delle costruzioni più importanti della città. Tuttavia, come per ogni altra cosa, aveva conosciuto giorni migliori. Al primo piano un soffitto aveva ceduto, le colonne si erano inclinate ed erano crollate, libri e giornali erano disseminati dappertutto. Continuai a vedere gruppetti di gente che circolava alla rinfusa – perlopiù uomini – ma nessuno mi prestava attenzione. Dall'altra parte degli scaffali con gli schedari, scoprii una porta rivestita di cuoio verde che portava a una scala. Salii i gradini su fino al piano superiore e mi ritrovai in un lungo corridoio dal soffitto basso, con numerose porte su entrambi i lati. Non c'era nessuno, e poiché non sentivo nessun rumore provenire da oltre queste porte, ritenni che le stanze fossero vuote. Cercai di aprire la prima porta a destra, ma era chiusa a chiave. Anche la seconda porta lo era. Poi, quando non me l'aspettavo più, la terza si aprì. Dentro c'erano cinque o sei uomini seduti intorno a un tavolo di legno, ce parlavano con voci animate. La stanza era spoglia di finestre, il muro di un colore giallastro era crepato e l'acqua gocciolava da un soffitto. Gli uomini avevano tutti la barba, erano vestiti di nero e portavano capelli in testa. Fui così sorpresa nel vederli, che mi sfuggì un lieve sussulto e fui sul punto di chiudere la porta, quando il più anziano di questi si voltò e mi lanciò un meraviglioso sorriso, un sorriso così caldo e cordiale che esitai.

– Le serve qualcosa? – chiese.

Aveva un forte accento (con la V trasformata in una f) ma non avrei potuto dire da quale paese provenisse. Le sserfe qualcossa? Lo guardai negli occhi e un fremito mi fece rabbrividire.

– Pensavo che tutti gli ebrei fossero morti, – sussurrai.

– Ce n'è ancora qualcuno vivo in giro, – rispose sorridendomi ancora. – Non è facile sbarazzarsi di noi, lo sa?

– Anch'io sono ebrea, – svelai senza riflettere. Mi chiamo Anna Blume e vengo da molto lontano. Ormai è un anno che vivo in città alla ricerca di mio fratello. Non penso che lei lo conosca. Si chiama William, William Blume.

– No, mia cara, – rispose scuotendo il capo. – Non ho mai incontrato suo fratello. Guardò verso i colleghi dall'altra parte del tavolo e pose la stessa domanda, ma nessuno di loro conosceva William.

– è passato tanto tempo, – dissi – a meno che non sia riuscito a scappare in qualche modo, sono sicura che è morto.

– è molto probabile, – disse il rabbino dolcemente. – Sono morti così in tanti. È meglio non attendersi miracoli.

– Non credo più in Dio, se è quello che intende. Ho smesso di credere quand'ero piccola.

– Non è facile infatti, – replicò il rabbino. – Se si considerano le circostanze, ci sono buone ragioni per cui tanti la pensano come lei.

– Non mi dirà che lei crede in Dio? – domandai.

– Noi parliamo con lui, ma se lui ci sente o no è tutta un'altra questione.

– La mia amica Isabel credeva in Dio, – continuai. – Anche lei è morta. Ho venduto la sua Bibbia per sette gloti al signor Gambino, il Restauratore. Ho fatto una cosa terribile, vero?

– Non necessariamente. Dopo tutto, ci sono cose più importanti dei libri. Il cibo viene prima delle preghiere.

In presenza di quest'uomo, mi stava stranamente accadendo di sentirmi sempre più bambina man mano che continuavo a parlare con lui. Forse mi ricordava com'erano le cose quand'ero molto giovane, negli anni oscuri in cui ancora credevo a quanto genitori e professori mi insegnavano. Non posso esserne certa, ma il fatto è che con lui mi sentivo su un terreno sicuro e sapevo che si trattava di una persona di cui potevo fidarmi. Quasi inconsciamente, mi ritrovai con le mani nelle tasche del mio cappotto e tirai fuori la foto di Samuel Farr.

– Cerco anche quest'uomo, – aggiunsi. – Si chiama Samuel Farr ed è molto probabile che sappia cos'è successo a mio fratello.

Passai la foto al rabbino che, dopo averla osservata per parecchi minuti, scosse il capo e disse di non riconoscere il volto. Proprio mentre mi stavo un po' demoralizzando, un uomo dall'altro capo del tavolo prese a parlare. Era il più giovane fra i presenti, e la sua barba rossastra era la più corta e più folta di quella degli altri.

– Rabbino, – disse timidamente. – Posso dire una cosa?

– Non hai bisogno di chiedere il permesso, Isaac, – rispose il rabbino. – Puoi dire quello che vuoi.

– Naturalmente non ne sono certo, ma penso di sapere chi sia quella persona, – continuò il giovane. – Almeno, conosco qualcuno con quel nome. Potrebbe non essere la persona che la giovane sta cercando, ma conosco quel nome.

[...]

La stanza era all'ottavo piano, l'ultimo dell'edificio. Isaac si allontanò in fretta a piccoli passi appena arrivammo, mormorando scuse inarticolate sul fatto che non voleva rimanere, e poi all'improvviso mi ritrovai di nuovo sola; in piedi nell'atrio nero come la notte con una candelina che mi bruciava fra le mani. C'è una legge sulla vita in città che dice che non si deve mai bussare a una porta a meno che non si sappia cosa c'è dall'altra parte. Avevo forse fatto tutta questa strada solo per incappare in nuove calamità? Samuel Farr per me non era niente più di un nome, un emblema di desideri impossibili e assurde speranze. Lo avevo usato come sprone per andare avanti, ma ora che finalmente ero giunta davanti alla sua porta mi sentivo terrorizzata. Se la candela non si fosse consumata così rapidamente, non avrei trovato il coraggio di bussare.

Una voce dura, ostile, urlò dalla stanza – Andatevene.

– Sto cercando Samuel Farr. C'è Samuel Farr lì dentro?

– Chi lo vuole? – chiese la voce? Anna Blume, – dissi.

– Non conosco nessuna Anna Blume – rispose la voce. – Vada via.

– Sono la sorella di William Blume, – dissi. – È più di una anno che lo cerco. Non mi può mandare via così. Continuerò a bussare finché non aprirà la porta.

Udii il rumore di una sedia che raschiava per terra seguito da quello dei passi nella mia direzione, e poi lo scatto della serratura che girava. La porta si aprì e venni finalmente sommersa dalla luce, un fascio enorme di raggi solari che si diffuse nell'atrio, proveniente da una finestra nella stanza. Mi ci volle qualche minuto per abituare gli occhi. Quando infine riuscii a scorgere la persona di fronte a me, la prima cosa che vidi fu un'arma – una piccola pistola nera puntata dritta al mio stomaco. Sì, era Samuel Farr, ma non somigliava più tanto alla fotografia. Il robusto giovanotto della foto si era trasformato in un magro e barbuto personaggio con le occhiaie scure, e dal suo corpo sembrava emanare un'energia imprevedibile e nervosa. Aveva l'aspetto di chi non dorme da un mese.

– Come faccio a sapere che sei chi dici di essere? – chiese.

– Perché lo dico io. Perché saresti uno stupido a non credermi.

– Ho bisogno di prove. Non ti farò entrare senza una prova.

– Tutto ciò che devi fare è ascoltarmi mentre parlo. Il mio accento è come il tuo. Proveniamo dallo stesso paese, dalla stessa città. Probabilmente siamo addirittura cresciuti nello stesso quartiere.

– Chiunque altro può imitare una voce. Mi devi mostrare qualcos'altro.

– Cosa ne dici di questa? – ed estrassi dalla tasca del cappotto la fotografia.

La studiò per dieci, venti secondi, senza dire una parola, e a poco a poco tutto il suo corpo sembrò accasciarsi, sprofondando in se stesso. Quando mi guardò di nuovo, aveva abbassato l'arma.

– Dio mio, esclamò a bassa voce, quasi in un sussurro. – Dove l'hai presa?

– Da Bogat. Me la diede prima che partissi.

– Sono io, – disse. – Ecco com'ero.

– Lo so.

– È difficile crederci, vero?

– Non proprio. Basta ricordare da quanto tempo sei qui.

Egli sembrò sovrappensiero per un attimo. Quando mi rivolse di nuovo lo sguardo fu come se non mi riconoscesse.

– Chi hai detto di essere? – Sorrise come per chiedere scusa e mi accorsi che aveva perso tre o quattro denti.

– Anna Blume, la sorella di William Blume.

– Blume?

– Esattamente.

– Immagino che tu voglia entrare, vero?

– Sì, è per questo che siamo qui. Dobbiamo parlare di molte cose.

La stanza era piccola, ma non tanto piccola da non contenere due persone. Un materasso sul pavimento, una scrivania e una seggiola accanto alla finestra, una stufa a legna, mucchi di giornali e libri contro uno dei muri, abiti in una casa di cartone. Mi ricordava le camere da letto degli studenti, somigliava a quella che avevi all'università l'anno in cui ti venni a trovare. Il soffitto era basso e scendeva verso la parete esterna in maniera così ripida che si poteva raggiungere quella parte della stanza solo piegando la schiena. Ma la finestra su quella parete era straordinaria – a forma di ventaglio, occupava quasi tutta la superficie. Era stupenda, fatta di lastre di vetro spesse e segmentate, divise da sottili barrette di piombo a formare un disegno intricato quanto l'ala di una farfalla. Da quella finestra si godeva di un panorama a perdita d'occhio, giù fino al bastone di Fiddler e oltre.

Samuel mi fece segno di sedere sul letto, poi si sedette sulla sedia della scrivania, ruotandola nella mia direzione. Si scusò per vermi puntato contro l'arma, ma la sua situazione era precaria, disse, e non aveva molta scelta. Viveva nella biblioteca ormai da quasi un anno, e si era sparsa la voce che avesse una grande somma di denaro nascosta in camera.

– Da quello che vedo qui, – dissi – non avrei mai immaginato che tu fossi ricco.

– Non uso i denaro per me. È per il libro che sto scrivendo. Pago la gente affinché venga qui a parlarmi. La pago per ogni intervista, secondo il tempo che dura. Un gloto per la prima ora, e mezzo gloto per ogni ora in più. Ne ho fatte a centinaia, una storia dietro l'altra. Non riesco a pensare a nessun altro modo per procedere. La storia è così grande, capisci, che è impossibile farsela raccontare da una singola persona.

Sam era stato inviato nella città da Bogat, e ancora adesso si chiedeva quale forza misteriosa si fosse impossessata di lui al punto da fargli accettare quell'incarico. – Sapevamo tutti che era successo qualcosa di terribile a tuo fratello, – disse. – Per oltre sei mesi non ricevemmo sue notizie e chiunque lo seguisse era destinato a finire nello stesso brodo. – Naturalmente Bogat non si scoraggiò, mi chiamò una mattina nel suo ufficio e disse: – Questa è l'occasione che hai sempre accettato, ragazzo. Ho intenzione di mandarti a rimpiazzare Blume –. I miei compiti erano chiari: scrivere i rapporti, scoprire cos'era successo a William, rimanere vivo. Tre giorni dopo mi invitarono a una festa d'addio con champagne e sigari. Bogat fece un brindisi e tutti bevvero alla mia salute, mi strinsero la mano e mi diedero una pacca sulla schiena. Mi sentii un invitato al mio funerale. Ma almeno non avevo tre bambini e un acquario di pesci rossi che mi aspettavano a casa come Willoughby. Si può dire di tutto del capo, ma non che non sia sensibile. Non gli ho mai rimproverato di avermi scelto. Il fatto era che probabilmente avevo voglia di venire, altrimenti mi sarebbe stato facile lasciar perdere. Ecco com'è iniziato. Preparai i bagagli, feci la punta alle mie matite e salutai tutti. Questo più di un anno e mezzo fa. Inutile dire che non inviai mai alcun rapporto e non trovai mai William. Per adesso, a quanto pare, sono ancora vivo e vegeto. Ma non me la sentirei di scommettere su quanto durerà.

[…]

Sam parlava a scatti e con tono ironico, saltando da un discorso all'altro tanto che mi riusciva difficile seguirlo. Mi dava l'impressione di un uomo sul punto di crollare – di qualcuno che si fosse spinto troppo in là – e che riuscisse a malapena a reggersi in piedi. Aveva accumulato più di trecento pagine di appunti, disse. Continuando a lavorare a questo ritmo pensava di poter finire il lavoro preliminare sul libro in altri cinque o sei mesi. Il problema era che gli stavano per finire i soldi e tutti i pronostici sembravano contro di lui. Non poteva più permettersi di fare interviste, dato il livello pericolosamente basso a cui erano scesi i suoi fondi, ora mangiava solo ogni due giorni. Naturalmente questo non faceva che peggiorare le cose. Tutte le sue forze erano state minate e alcune volte si sentiva così stordito da non vedere neppure le parole che stava scrivendo. Talvolta, disse, si addormentava di colpo sulla scrivania senza neanche accorgersene.

– Ti ucciderai prima di aver finito, – dissi. – E per quale motivo? Dovresti smettere di scrivere il libro e prenderti cura di te.

– Non posso fermarmi. Il libro è l'unica cosa che dà la forza di andare avanti. Mi tiene lontano dalle inquietudini sul mio futuro e mi impedisce di farmi risucchiare dalla mia vita. Se mi fermassi, sarei perso. Non penso che riuscirei a sopravvivere un giorno di più.

– Ma non c'è nessuno che leggerà il tuo dannato libro, – dissi rabbiosamente. – Non capisci? Non importa quante pagine scriverai, nessuno vedrà mai cosa hai fatto.

– Ti sbagli. Riporterò a casa il manoscritto. Il libro verrà pubblicato e tutti sapranno cosa sta succedendo qui.


Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

Era la prima volta che entravo nella biblioteca Nazionale. Era un edificio splendido, con ritratti di governanti e generali appesi ai muri, colonnati all'italiana e un bellissimo marmo ad intarsio – una delle costruzioni più importanti della città. Tuttavia, come per ogni altra cosa, aveva conosciuto giorni migliori. Al primo piano un soffitto aveva ceduto, le colonne si erano inclinate ed erano crollate, libri e giornali erano disseminati dappertutto. Continuai a vedere gruppetti di gente che circolava alla rinfusa – perlopiù uomini – ma nessuno mi prestava attenzione. Dall'altra parte degli scaffali con gli schedari, scoprii una porta rivestita di cuoio verde che portava a una scala. Salii i gradini su fino al piano superiore e mi ritrovai in un lungo corridoio dal soffitto basso, con numerose porte su entrambi i lati. Non c'era nessuno, e poiché non sentivo nessun rumore provenire da oltre queste porte, ritenni che le stanze fossero vuote. Cercai di aprire la prima porta a destra, ma era chiusa a chiave. Anche la seconda porta lo era. Poi, quando non me l'aspettavo più, la terza si aprì. Dentro c'erano cinque o sei uomini seduti intorno a un tavolo di legno, ce parlavano con voci animate. La stanza era spoglia di finestre, il muro di un colore giallastro era crepato e l'acqua gocciolava da un soffitto. Gli uomini avevano tutti la barba, erano vestiti di nero e portavano capelli in testa. Fui così sorpresa nel vederli, che mi sfuggì un lieve sussulto e fui sul punto di chiudere la porta, quando il più anziano di questi si voltò e mi lanciò un meraviglioso sorriso, un sorriso così caldo e cordiale che esitai.

– Le serve qualcosa? – chiese.

Aveva un forte accento (con la V trasformata in una f) ma non avrei potuto dire da quale paese provenisse. Le sserfe qualcossa? Lo guardai negli occhi e un fremito mi fece rabbrividire.

– Pensavo che tutti gli ebrei fossero morti, – sussurrai.

– Ce n'è ancora qualcuno vivo in giro, – rispose sorridendomi ancora. – Non è facile sbarazzarsi di noi, lo sa?

– Anch'io sono ebrea, – svelai senza riflettere. Mi chiamo Anna Blume e vengo da molto lontano. Ormai è un anno che vivo in città alla ricerca di mio fratello. Non penso che lei lo conosca. Si chiama William, William Blume.

– No, mia cara, – rispose scuotendo il capo. – Non ho mai incontrato suo fratello. Guardò verso i colleghi dall'altra parte del tavolo e pose la stessa domanda, ma nessuno di loro conosceva William.

– è passato tanto tempo, – dissi – a meno che non sia riuscito a scappare in qualche modo, sono sicura che è morto.

– è molto probabile, – disse il rabbino dolcemente. – Sono morti così in tanti. È meglio non attendersi miracoli.

– Non credo più in Dio, se è quello che intende. Ho smesso di credere quand'ero piccola.

– Non è facile infatti, – replicò il rabbino. – Se si considerano le circostanze, ci sono buone ragioni per cui tanti la pensano come lei.

– Non mi dirà che lei crede in Dio? – domandai.

– Noi parliamo con lui, ma se lui ci sente o no è tutta un'altra questione.

– La mia amica Isabel credeva in Dio, – continuai. – Anche lei è morta. Ho venduto la sua Bibbia per sette gloti al signor Gambino, il Restauratore. Ho fatto una cosa terribile, vero?

– Non necessariamente. Dopo tutto, ci sono cose più importanti dei libri. Il cibo viene prima delle preghiere.

In presenza di quest'uomo, mi stava stranamente accadendo di sentirmi sempre più bambina man mano che continuavo a parlare con lui. Forse mi ricordava com'erano le cose quand'ero molto giovane, negli anni oscuri in cui ancora credevo a quanto genitori e professori mi insegnavano. Non posso esserne certa, ma il fatto è che con lui mi sentivo su un terreno sicuro e sapevo che si trattava di una persona di cui potevo fidarmi. Quasi inconsciamente, mi ritrovai con le mani nelle tasche del mio cappotto e tirai fuori la foto di Samuel Farr.

– Cerco anche quest'uomo, – aggiunsi. – Si chiama Samuel Farr ed è molto probabile che sappia cos'è successo a mio fratello.

Passai la foto al rabbino che, dopo averla osservata per parecchi minuti, scosse il capo e disse di non riconoscere il volto. Proprio mentre mi stavo un po' demoralizzando, un uomo dall'altro capo del tavolo prese a parlare. Era il più giovane fra i presenti, e la sua barba rossastra era la più corta e più folta di quella degli altri.

– Rabbino, – disse timidamente. – Posso dire una cosa?

– Non hai bisogno di chiedere il permesso, Isaac, – rispose il rabbino. – Puoi dire quello che vuoi.

– Naturalmente non ne sono certo, ma penso di sapere chi sia quella persona, – continuò il giovane. – Almeno, conosco qualcuno con quel nome. Potrebbe non essere la persona che la giovane sta cercando, ma conosco quel nome.

[...]

La stanza era all'ottavo piano, l'ultimo dell'edificio. Isaac si allontanò in fretta a piccoli passi appena arrivammo, mormorando scuse inarticolate sul fatto che non voleva rimanere, e poi all'improvviso mi ritrovai di nuovo sola; in piedi nell'atrio nero come la notte con una candelina che mi bruciava fra le mani. C'è una legge sulla vita in città che dice che non si deve mai bussare a una porta a meno che non si sappia cosa c'è dall'altra parte. Avevo forse fatto tutta questa strada solo per incappare in nuove calamità? Samuel Farr per me non era niente più di un nome, un emblema di desideri impossibili e assurde speranze. Lo avevo usato come sprone per andare avanti, ma ora che finalmente ero giunta davanti alla sua porta mi sentivo terrorizzata. Se la candela non si fosse consumata così rapidamente, non avrei trovato il coraggio di bussare.

Una voce dura, ostile, urlò dalla stanza – Andatevene.

– Sto cercando Samuel Farr. C'è Samuel Farr lì dentro?

– Chi lo vuole? – chiese la voce? Anna Blume, – dissi.

– Non conosco nessuna Anna Blume – rispose la voce. – Vada via.

– Sono la sorella di William Blume, – dissi. – È più di una anno che lo cerco. Non mi può mandare via così. Continuerò a bussare finché non aprirà la porta.

Udii il rumore di una sedia che raschiava per terra seguito da quello dei passi nella mia direzione, e poi lo scatto della serratura che girava. La porta si aprì e venni finalmente sommersa dalla luce, un fascio enorme di raggi solari che si diffuse nell'atrio, proveniente da una finestra nella stanza. Mi ci volle qualche minuto per abituare gli occhi. Quando infine riuscii a scorgere la persona di fronte a me, la prima cosa che vidi fu un'arma – una piccola pistola nera puntata dritta al mio stomaco. Sì, era Samuel Farr, ma non somigliava più tanto alla fotografia. Il robusto giovanotto della foto si era trasformato in un magro e barbuto personaggio con le occhiaie scure, e dal suo corpo sembrava emanare un'energia imprevedibile e nervosa. Aveva l'aspetto di chi non dorme da un mese.

– Come faccio a sapere che sei chi dici di essere? – chiese.

– Perché lo dico io. Perché saresti uno stupido a non credermi.

– Ho bisogno di prove. Non ti farò entrare senza una prova.

– Tutto ciò che devi fare è ascoltarmi mentre parlo. Il mio accento è come il tuo. Proveniamo dallo stesso paese, dalla stessa città. Probabilmente siamo addirittura cresciuti nello stesso quartiere.

– Chiunque altro può imitare una voce. Mi devi mostrare qualcos'altro.

– Cosa ne dici di questa? – ed estrassi dalla tasca del cappotto la fotografia.

La studiò per dieci, venti secondi, senza dire una parola, e a poco a poco tutto il suo corpo sembrò accasciarsi, sprofondando in se stesso. Quando mi guardò di nuovo, aveva abbassato l'arma.

– Dio mio, esclamò a bassa voce, quasi in un sussurro. – Dove l'hai presa?

– Da Bogat. Me la diede prima che partissi.

– Sono io, – disse. – Ecco com'ero.

– Lo so.

– È difficile crederci, vero?

– Non proprio. Basta ricordare da quanto tempo sei qui.

Egli sembrò sovrappensiero per un attimo. Quando mi rivolse di nuovo lo sguardo fu come se non mi riconoscesse.

– Chi hai detto di essere? – Sorrise come per chiedere scusa e mi accorsi che aveva perso tre o quattro denti.

– Anna Blume, la sorella di William Blume.

– Blume?

– Esattamente.

– Immagino che tu voglia entrare, vero?

– Sì, è per questo che siamo qui. Dobbiamo parlare di molte cose.

La stanza era piccola, ma non tanto piccola da non contenere due persone. Un materasso sul pavimento, una scrivania e una seggiola accanto alla finestra, una stufa a legna, mucchi di giornali e libri contro uno dei muri, abiti in una casa di cartone. Mi ricordava le camere da letto degli studenti, somigliava a quella che avevi all'università l'anno in cui ti venni a trovare. Il soffitto era basso e scendeva verso la parete esterna in maniera così ripida che si poteva raggiungere quella parte della stanza solo piegando la schiena. Ma la finestra su quella parete era straordinaria – a forma di ventaglio, occupava quasi tutta la superficie. Era stupenda, fatta di lastre di vetro spesse e segmentate, divise da sottili barrette di piombo a formare un disegno intricato quanto l'ala di una farfalla. Da quella finestra si godeva di un panorama a perdita d'occhio, giù fino al bastone di Fiddler e oltre.

Samuel mi fece segno di sedere sul letto, poi si sedette sulla sedia della scrivania, ruotandola nella mia direzione. Si scusò per vermi puntato contro l'arma, ma la sua situazione era precaria, disse, e non aveva molta scelta. Viveva nella biblioteca ormai da quasi un anno, e si era sparsa la voce che avesse una grande somma di denaro nascosta in camera.

– Da quello che vedo qui, – dissi – non avrei mai immaginato che tu fossi ricco.

– Non uso i denaro per me. È per il libro che sto scrivendo. Pago la gente affinché venga qui a parlarmi. La pago per ogni intervista, secondo il tempo che dura. Un gloto per la prima ora, e mezzo gloto per ogni ora in più. Ne ho fatte a centinaia, una storia dietro l'altra. Non riesco a pensare a nessun altro modo per procedere. La storia è così grande, capisci, che è impossibile farsela raccontare da una singola persona.

Sam era stato inviato nella città da Bogat, e ancora adesso si chiedeva quale forza misteriosa si fosse impossessata di lui al punto da fargli accettare quell'incarico. – Sapevamo tutti che era successo qualcosa di terribile a tuo fratello, – disse. – Per oltre sei mesi non ricevemmo sue notizie e chiunque lo seguisse era destinato a finire nello stesso brodo. – Naturalmente Bogat non si scoraggiò, mi chiamò una mattina nel suo ufficio e disse: – Questa è l'occasione che hai sempre accettato, ragazzo. Ho intenzione di mandarti a rimpiazzare Blume –. I miei compiti erano chiari: scrivere i rapporti, scoprire cos'era successo a William, rimanere vivo. Tre giorni dopo mi invitarono a una festa d'addio con champagne e sigari. Bogat fece un brindisi e tutti bevvero alla mia salute, mi strinsero la mano e mi diedero una pacca sulla schiena. Mi sentii un invitato al mio funerale. Ma almeno non avevo tre bambini e un acquario di pesci rossi che mi aspettavano a casa come Willoughby. Si può dire di tutto del capo, ma non che non sia sensibile. Non gli ho mai rimproverato di avermi scelto. Il fatto era che probabilmente avevo voglia di venire, altrimenti mi sarebbe stato facile lasciar perdere. Ecco com'è iniziato. Preparai i bagagli, feci la punta alle mie matite e salutai tutti. Questo più di un anno e mezzo fa. Inutile dire che non inviai mai alcun rapporto e non trovai mai William. Per adesso, a quanto pare, sono ancora vivo e vegeto. Ma non me la sentirei di scommettere su quanto durerà.

[…]

Sam parlava a scatti e con tono ironico, saltando da un discorso all'altro tanto che mi riusciva difficile seguirlo. Mi dava l'impressione di un uomo sul punto di crollare – di qualcuno che si fosse spinto troppo in là – e che riuscisse a malapena a reggersi in piedi. Aveva accumulato più di trecento pagine di appunti, disse. Continuando a lavorare a questo ritmo pensava di poter finire il lavoro preliminare sul libro in altri cinque o sei mesi. Il problema era che gli stavano per finire i soldi e tutti i pronostici sembravano contro di lui. Non poteva più permettersi di fare interviste, dato il livello pericolosamente basso a cui erano scesi i suoi fondi, ora mangiava solo ogni due giorni. Naturalmente questo non faceva che peggiorare le cose. Tutte le sue forze erano state minate e alcune volte si sentiva così stordito da non vedere neppure le parole che stava scrivendo. Talvolta, disse, si addormentava di colpo sulla scrivania senza neanche accorgersene.

– Ti ucciderai prima di aver finito, – dissi. – E per quale motivo? Dovresti smettere di scrivere il libro e prenderti cura di te.

– Non posso fermarmi. Il libro è l'unica cosa che dà la forza di andare avanti. Mi tiene lontano dalle inquietudini sul mio futuro e mi impedisce di farmi risucchiare dalla mia vita. Se mi fermassi, sarei perso. Non penso che riuscirei a sopravvivere un giorno di più.

– Ma non c'è nessuno che leggerà il tuo dannato libro, – dissi rabbiosamente. – Non capisci? Non importa quante pagine scriverai, nessuno vedrà mai cosa hai fatto.

– Ti sbagli. Riporterò a casa il manoscritto. Il libro verrà pubblicato e tutti sapranno cosa sta succedendo qui.


Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

sabato 1 giugno 2013

Flash

«E Chuckie pensò alla ballata di Louis Bakey, una storia che il bombardiere non si stancava mai di raccontare e che l'ufficiale di rotta non si stancava mai di ascoltare, perché era come un grande spiritual negro che trasmetteva brividi di rispetto e meraviglia.
La storia di come Louis, superata per il rotto della cuffia la scuola per bombardieri, si ritrova nell'equipaggio di un B-52 a una quota di novemila metri sopra il Nevada Test Site, a simulare lo sgancio di una bomba nucleare di cinquanta chilotoni.
A simulare, badate bene, mentre un ordigno vero della stessa grandezza viene fatto esplodere dalla torre di lancio direttamente sotto il velivolo.
Perché l'idea era, Vediamo come reagiscono l'aereo e l'equipaggio, il metallo e la carne, al flash, all'esplosione, allo shock, allo spettacolo e così via.
E se ne vengono fuori più o meno intatti, forse un giorno lasceremo che sgancino la loro bomba.
Tutto l'aereo è oscurato. Finestrini schermati da imbottiture coperte di Reynolds Wrap. L'equipaggio ha i tamponi sugli occhi. Piccoli cuscinetti di nylon che per Louis hanno l'odore curioso ed eccitante di biancheria intima femminile.
Un volontario paramedico è sistemato su un sedile con quindici centimetri di cordino e una targhetta tipo bustina di tè che gli penzolano dalla bocca. Ha inghiottito il resto del cordino, a cui è attaccata una piccola lastra radiografica rivestita di gelatina di alluminio, che ora è da qualche parte sotto l'esofago, per misurare il passaggio delle radiazioni sotto il suo corpo.
Louis fa il suo finto conto alla rovescia e aspetta il flash. Un giovane forte e immortale in una nobile missione.

- Tre, due, uno.
 
Poi il mondo si illumina. Il corpo viene invaso da un bagliore che è come il tocco di Dio. E Louis riesce a vedere le ossa della propria mano attraverso gli occhi chiusi, attraverso lo spesso tampone piantato sulla sua faccia.
Giro la testa e tutt'intorno ci sono scheletri che ballano nel flash. L'ufficiale di rotta, l'istruttore ufficiale di rotta, l'artigliere di coda, povero stronzo. Siamo morti volanti.
Ho pensato o Signore Gesù. Giuro su Dio che credevo di essere in paradiso. Il sudore mi scorre a rivoli sulla faccia e dagli interruttori esce fumo e la detonazione ci catapulta in su per migliaia di metri, contro le nostre migliori intenzioni.
Mi sembrava di volare dritto verso il giorno del giudizio con un reggiseno di nylon incollato alla faccia.
E quando l'onda d'urto ci ha colpito, siamo stati sbalzati in alto di altri settecento metri, e quell'aereo enorme si comportava come una foglia in una notte di vento.
E io continuavo a vedere i morti volanti attraverso gli occhi chiusi, uomini scheletro con knee bone connected to the thigh bone, I hear the word of the Lord.
E pensavo che, essendo nero, sarei stato meno trasparente, più impenetrabile. E invece vedevo le mie ossa attraverso la pelle. Quel flash era troppo brillante per fare preferenze razziali.
Siamo tutti uguali agli occhi di Dio, e questo ci serva da lezione.
E c'è il paramedico con il codino che gli penzola dalla bocca e la mano sula targhetta per non ingoiarlo, e io riesco a vedere la lastra radiografica attraverso la pelle, le ossa, le costole e non so cos'altro, e brilla come un'alba sul deserto.
Quando non corre più rischi a togliere il tampone e ad aprire gli occhi, Louis apre gli occhi, toglie il tampone e si fa strada faticosamente fino alla carlinga dove aiuta il secondo pilota a togliere l'imbottitura termica ed eccola lì, viva e bianca sopra di loro, la nube a fungo, e ribolle e chiacchiera e ridacchia come un'onnipotente visione, alla faccia di tutti.
Ho spalancato gli occhi e sono rimasto così e non si sono mai veramente chiusi. Perché ho visto quello che ho visto. Quella cosa così grande, grossa e alta sopra di noi. Ed esplodeva e si gonfiava come non si era mai visto al mondo. E siamo passati oltre il gambo che saliva rapido, ridendo e chiacchierando, spingendo la nube su fin dentro la stratosfera.
Nel giro di pochi anni ho perso la capacità di scrivere a mano. Non riesco a scrivere il mio nome senza tremiti e scatti. Ormai piscio al rallentatore. E il mio occhio sinistro vede cose che riguardano il destro.
E questa era la ballata di Louis Barkley raccontata a mille aviatori nelle basi battute dal vento nei brevi giorni e nei lunghi anni di costante allerta nel cuore buio e stoico degli inverni della guerra fredda.»

Don DeLillo, Underworld

mercoledì 25 gennaio 2012

L'alba

Il giramondo decise di porre fine alla sua passeggiata per i vicoli della città portuale. E in questo modo pose fine anche al suo peregrinare attraverso i bassifondi e i palazzi di tutte le altre città, i paesi, gli accampamenti e gli eremi, i deserti e le foreste vergini della terra. Si sedette sugli sporchi gradini di pietra che conducevano alla porta di una casa alta e stretta - evidentemente un bordello cinese, a giudicare dalla lampada appesa sopra la porta -, congiunse le mani sul pomo del suo bastone da passeggio, ci appoggiò sopra il mento e fissò lo sguardo, senza vedere nulla, sulle auto e i tram che gli sfrecciavano davanti strepitando. Da un momento all'altro aveva perduto tutta la curiosità, tutta la voglia di continuare il suo lungo viaggio. Ormai non se ne riprometteva più niente.
Aveva visto tutti i prodigi e i misteri del mondo. Conosceva la colonna di pietra lunare che si libra nel tempio di Tiamat e le torri di vetro di Manhattan; aveva bevuto dai geyser di sangue nell'isola di Hod e parlato dell'essenza del destino con il signore cieco della biblioteca di Buenos Aires; aveva portato al dito l'anello della regina Mrabatan che conferisce il potere sui ricordi dell'umanità e aveva camminato - mai a nessuno straniero prima di lui era stato consentito di accedervi - sulle strade fiammeggianti della città di Eldis; lo avevano condotto in una portantina d'acciaio per le sale macchine di Detroit, ed era riuscito a trascorrere una notte nei meandri della Cloaca Massima di Roma, senza smarrire la ragione in mezzo a tutte le apparizioni del passato e del futuro che lì combattono le loro spettrali battaglie notturne. Innumerevoli cose aveva visto, ma di tutti quei misteri non gli importava niente. Il suo non vi era compreso. E poiché il suo non l'aveva scoperto, anche tutti gli altri non gli avevano detto nulla.
Se non avesse intrapreso quel viaggio, gli sarebbe almeno rimasta l'illusione che da qualche parte al mondo ci fosse il segno che valeva per lui, che parlava in una lingua che lui solo capiva, che era la chiave per sciogliere l'enigma della sua esistenza. Adesso doveva invece ammettere che non c'era nulla di simile. Se era vero che la terra, come una lucida sfera d'argento, rifletteva soltanto le infinite forme e forze del cosmo, allora era uno sbaglio credere che patria dell'uomo fosse l'universo, perché non c'era niente che legasse la sua natura a quella universale. Se invece, fin dall'inizio e per sempre, egli era un estraneo in esso, allora l'universo era troppo piccolo... troppo, troppo piccolo!
Il viaggiatore si voltò trasalendo, perché una ragazza asiatica di carnagione scura con un semplice vestito grigioazzurro chiese, con voce bassa e umile, se le era consentito pregare l'eminente signore di accogliere i miseri servigi della sua indegna persona. Così dicendo, gli indicò con un gesto invitante della mano un piccolo carretto piatto che aveva spinto fuori della porta fin quasi sul bordo del gradino più alto. Il viaggiatore, un po' imbarazzato ma anche stizzito per lo spavento che la ragazza gli aveva provocato, spiegò bruscamente che la visita a una casa di piacere non rientrava affatto nelle sue intenzioni.
La ragazza, minuta e di una gracilità di bambina, lo fissò con i suoi occhi di luna nuova, non parve aver capito, s'inchinò profondamente e così rimase davanti a lui, mentre, con fare timido, continuava a indicargli, invitante, i comodi cuscini finemente ricamati del suo carretto. Il viaggiatore, al quale dispiaceva di averla forse offesa, prese posto con un sospiro sul piccolo veicolo e si lasciò condurre all'interno della casa.
Cominciarono percorrendo un lungo vestibolo con le pareti, i pavimenti e i soffitti rivestiti di una lucida pietra venata di molti colori. I pezzi impiegati sembravano essere stati scelti con cura in base a una caratteristica comune, perché ovunque la fine marezzatura invitava la fantasia dell'osservatore a scorgere nelle forme casuali visi e ghigne, decorazioni floreali, Dei e Demoni, animali su trampoli, ballerine fiammeggianti, processioni di figure a cavallo di insetti, interi paesaggi di corpi, mari in tempesta pieni di navi e di mostri, palazzi di galaverna e città in rovina ricoperte di muschio gigante. L'attenzione del viaggiatore era però ancora bloccata a causa della sua profonda svogliatezza. Egli continuava a non vedere niente.
Ma a poco a poco, nelle sale successive, il suo animo sbarrato si risvegliò e cominciò, incerto e ancora incredulo, a decifrare l'alfabeto dei segni che lui stesso creava e pure non creava. Le forme, fino a quel momento piane, andarono sempre più assumendo una configurazione tridimensionale. Bizzarre masse di roccia, stalattiti e stalagmiti, radici, ceppi di alberi, rigagnoli di lava e grumi di metallo fuso erano sparsi tutt'intorno, plasmati dalle forze spontanee della natura in modo sempre più perfetto fino a produrre le figure più sorprendenti e insieme più plausibili. Era difficile credere che tutto ciò fosse dovuto soltanto ai capricci del caso, tuttavia non c'era altra forza, salvo quella operante nell'osservatore stesso, a creare da quelle forme casuali le più straordinarie opere d'arte. Sempre più il viaggiatore sentiva svanire il confine fra il proprio mondo interiore e l'esterno, fra ciò che era lui stesso a creare e quello che realmente gli stava dinanzi, finché non riuscì più a distinguere l'uno dall'altro e iniziò ad avvertire il proprio animo come un qualcosa di esterno e gli oggetti esterni come il suo mondo interno. D'improvviso fu come se vedesse se stesso, la propria figura rannicchiata sopra il carretto, dall'interno e dall'esterno contemporaneamente, come se anch'essa non fosse altro che una forma dovuta al caso nella quale il suo spirito creativo scorgeva qualcosa di essenziale. Ma proprio grazie a ciò, questo qualcosa diveniva realtà. Egli ne fu spaventato, ma era uno spavento gradevole.
Dal momento in cui aveva finalmente iniziato a vedere, egli non avrebbe più saputo dire se quello che scorgeva dipendeva ancora da ciò che gli stava di fronte. Gli pareva piuttosto che, di sala in sala, gli oggetti esterni si facessero sempre più semplici e comuni, ma che la misteriosa forza, che in lui aveva spiegato le ali, sempre più si accrescesse e mutasse l'immagine di tutte le cose. Da una foglia appassita, un uovo bianco o una piuma d'uccello gli venivano incontro mondi su mondi ai quali era profondamente affine: il loro creatore e, al tempo stesso, la loro creatura. Comprese che soltanto allora, rinunciando a tutto quanto fino a quel momento aveva chiamato realtà, cominciava ad accostarsi a essa.
Quando la sua silenziosa accompagnatrice lo condusse davanti a una parete di un blu-lapislazzuli scuro, quasi nero, gli si offrì la seguente vista: attraverso innumerevoli fenditure di diversa ampiezza che si aprivano nella parete si vedevano in rilievo altrettanti paesaggi in miniatura di indescrivibile grazia e leggiadria. C'erano montagne, laghi e cascate simili a nastri di taffettà blu, di cui vedeva realmente precipitare e spumeggiare le acque. Le minuscole cascate si gettavano e scorrevano sopra rocce in proporzione, quindi molto lentamente. Anche la luce degli scenari pareva mutare. Chiarore lunare, ora oscurato ora ravvivato dal passaggio di nubi, albe e sere violette. E là, dove la luce del sole colpiva la nebbiolina di acqua polverizzata, si formavano giochi di arcobaleni. Infine il viaggiatore si rese conto di sentire persino l'argentino mormorio e lo scroscio delle cascatelle, anche se certo molto lieve e lontano. Quanto più ascoltava quel suono, tanto più chiaramente percepiva una specie di musica, dolce e cristallina.
« Che cos'è? » chiese, e di nuovo si spaventò un poco, stavolta per la propria voce che gli parve alta e rozza.
La ragazza sorrise e rispose soavemente: « Quelli che ode l'eminente signore sono teneri germogli della sua futura esistenza ».
Il viaggiatore non comprese la risposta, ma non provò il bisogno di fare ulteriori domande, si abbandonò invece all'ascolto dei suoni che gli aleggiavano attorno. In una maniera per lui stesso del tutto nuova, il suo cuore si colmò di una tenerezza quasi dolorosa, addirittura un'intensa gioia.
« Dunque », sussurrò, « soltanto io posso sentire questa musica? »
« A parte te e me, signore, nessun altro al mondo », rispose la ragazza, accostando le labbra al suo orecchio.
Lui la guardò. « Perché anche tu? »
« Io », disse abbassando lo sguardo la ragazza con voce tanto sommessa che egli la udì appena, « sono nessuno. »
Molto più tardi si fermarono di fronte a una parete di un giallo-pallido, quasi bianco, sulla quale si trovavano quattro lastre rotonde, tre in fila l'una accanto all'altra, la quarta un po' più in alto.
La prima comunicò a colui che la osservava l'impressione di guardare dall'alto, a perpendicolo, verso uno specchio d'acqua agitata. Ininterrottamente scorrevano, come bianche linee irregolari, le argentee creste delle onde. Esse venivano tagliate di sbieco da un'anguilla nera che sembrava muoversi in avanti a serpentina, mentre invece restava sempre al centro dell'immagine. Stupito, il viaggiatore osservò la scena sempre mutevole e tuttavia sempre uguale. Voleva infine volgersi al disco seguente, quando dal primo uscì una voce bisbigliante, non proprio umana, ma quasi che dal fruscio delle onde si formassero delle parole:
« Mi ha creato il mare ».
L'inaspettato messaggio spaventò di nuovo un poco il viaggiatore. Sentiva che qualcosa nel profondo del suo animo ne aveva compreso il senso, solo che non riusciva a portare tale comprensione fino alla soglia della coscienza. Guardò la sua accompagnatrice con aria interrogativa, ma costei si limitò a chinare il capo sorridendo. Egli intuì che a una domanda diretta non avrebbe avuto risposta, perciò anche lui tacque e rivolse la propria attenzione al secondo disco appeso alla destra del precedente.
Dapprima vi riconobbe qualcosa come la cima innevata di una montagna che verso il basso sfumava in sempre più densi vapori di nebbia. Soltanto a un più attento esame si avvide che la montagna era invece una testa umana rivolta verso di lui, ma col viso di poco abbassato. La parte superiore del capo era insolitamente alta e da entrambi i lati scendevano lunghi capelli candidi come la neve. Il viso sembrava tuttavia quello di un bambino, non si poteva dire se di un fanciullo odi una fanciulla. Il senso di calma che emanava da quel volto era così profondo che l'osservatore non volle turbarlo neppure col più lieve batter di ciglia. Rimase perciò immobile, finché, senza udire voce alcuna, percepì le parole:
« Io sono Vegliardo-Bambino ».
Di nuovo alla destra di quest'ultimo e alla sua stessa altezza si trovava il terzo disco. Quando il viaggiatore lo contemplò, ebbe l'impressione di guardare attraverso una parete di vetro un paesaggio sottomarino immerso nel chiarore dorato del crepuscolo con piante che fluttuavano qua e là. In primo piano vide la testa di un castoro che si dirigeva dal basso a sinistra verso l'alto a destra, mentre di tanto in tanto perle d'aria gli sgorgavano dalle narici, come se fosse quasi sul punto di emergere. Dopo che il viaggiatore ebbe osservato a lungo, in raccoglimento, anche questa scena, dall'antichissimo crepuscolo dorato percepì le parole: « Io creerò il lago ».
Durante tutto il tempo trascorso in quella casa, a quanto pareva immensa, nel viaggiatore era avvenuto un cambiamento di cui solo adesso cominciava a rendersi conto. Ciò che più volte e anche ora, di fronte a quei dischi, aveva avvertito come una sorta di leggero timore era nel frattempo diventato una condizione permanente, un lieve rapimento. Era per lui una sensazione del tutto nuova e inusitata, eppure non esitò ad abbandonarvisi senza riserve, perché aveva l'impressione che qualcosa dentro di lui venisse, con estrema delicatezza, rimesso al suo posto e in equilibrio.
Il quarto disco si trovava anch' esso alla destra degli altri, ma più in alto di almeno l'intero diametro. Inoltre il suo bordo non era rotondo, ma ondulato e arcuato irregolarmente, senza un criterio, così almeno sembrava, come una pietra erosa. Sulla superficie non c'era nulla da vedere, era vuota.
Il viaggiatore l'osservò comunque con la stessa attenzione che aveva dedicato ai tre precedenti, ma l'unica cosa che riuscì a scorgere dopo parecchio tempo fu un non meglio definibile cambiamento statico, press'a poco come se del fumo si alzasse e si abbassasse avviluppandosi. Contemporaneamente fu colto da un certo timore, perché sentiva che la forza appena destatasi in lui veniva risucchiata dal vuoto di quell'immagine, e che essa vorticava come in un abisso senza fondo, del tutto impotente. Tuttavia non desistette e attese con pazienza che anche quel disco gli parlasse, ma invano. Alla fine afferrò la mano della ragazza, come ad aggrapparvisi, e sussurrò: « Perché tace? »
« Ha già parlato », rispose lei. « Perché non l'ho sentito? »
« L'hai sentito, signore. Ma lo troverai soltanto nel tuo ricordo. »
« Ma io desidero sentirlo adesso! »
« Signore », disse la ragazza a bassissima voce, « come potrebbe accadere fintanto che tu lo desideri? Non avere desideri significa non fare differenza. Non fare differenza significa vedere l'invisibile e udire ciò che tace. Perché dunque vuoi rendermi infelice? »
Allora il viaggiatore provò vergogna, senza sapere bene perché.
« Il molto che tu sai da dove viene? » le domandò. La ragazza sorrise. « È dovuto al fatto che io vengo considerata, a mio disdoro, l'indegna proprietaria di questa raccolta di cose che non possono avere un proprietario. »
Il viaggiatore tacque e la guardò a lungo in tralice. Lei lo lasciò fare, o non se ne accorse, dato che teneva gli occhi abbassati. Egli ammirò le linee straordinariamente nobili della sua fronte, del suo naso, delle sue labbra. Soltanto ora avvertiva la rara bellezza dei suoi tratti. Dopo un po' lei si nascose il viso con la manica del vestito e pregò l'uomo di accordarle il permesso di mostrargli i suoi veri tesori, affermando che quanto egli finora aveva visto era stato appena degno della sua attenzione. Il viaggiatore si alzò dal piccolo carretto, s'inchinò profondamente, anche se in maniera un po' goffa, di fronte a lei, così come lei aveva fatto di fronte a lui, e rispose che, avendo la gentilissima signora dei segni e dei prodigi intenzione di abbassarsi a mostrare a lui, barbaro e incolto, gioielli ancora più riservati, egli avrebbe accettato l'offerta con rispetto e gratitudine; solo doveva insistere per non essere più oltre portato da lei in quanto, sapendo di quale insigne signora fosse l'ospite, reputava già come il massimo, se pure immeritato onore il poterle camminare dietro o addirittura al fianco.
La ragazza contestò le sue affermazioni e s'inchinò, il viaggiatore s'inchinò a propria volta e insistette, finché ebbe partita vinta. Il piccolo carretto si arrestò, la ragazza prese delicatamente per mano, solo con le punte delle dita, il suo ospite ben più alto di lei, e così, l'uno accanto all'altra, in silenzio, si diressero verso le sale più interne, incontro a continenti vergini e oceani immersi nella luce dell'alba.

Michael Ende, Lo specchio nello specchio

giovedì 29 dicembre 2011

L'avventura di due sposi

«L'operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po' prima alle volte un po' dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull'acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po' di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine con la faccia mezza addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un'altra cosa, ci si ritrova al mattino riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s'alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S'abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c'era neve, a secondo di com'era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: - Che tempo fa? - e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c'era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell'ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s'era tutta spogliata, un po' rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l'unto dell'officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po' intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s'insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt'a un tratto Elide: Dio! Che ora è già! e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po' impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. "Ecco, l'ha preso", pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d'operai e operaie sull'"undici", che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l'aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov'era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l'altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s'addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po' girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po', anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s'accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell'animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera.
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la spesa, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla spesa. Poi: - Su, diamoci un addrizzo, - lei diceva, e s'alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt'e due poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l'intervallo dell'una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l'indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l'indomani si sarebbe svegliato.
Lei un po' sfaccendava un po' si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l'ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po' distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno. Oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c'era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d'avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star li a tenersi per mano.
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S'abbracciavano. Arturo sembrava che solo, allora capisse com'era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s'accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.»

Italo Calvino, Gli amori difficili